I FONDAMENTI RELIGIOSI DELLO STATO VENETO di Edoardo Rubini
pubblicata da Millo Bozzolan il giorno giovedì 21 ottobre 2010 alle ore 18.09
Ebbi la fortuna di assistere alla conferenza dell'amico Rubini che, grazie alla sua disponibilità, quì riportiamo integralmente. Il tema è importante, da molta parte del venetismo trascurato, quasi bastasse nascere Veneti per avere inscritte nel DNA, le virtù per cui furono famosi i nostri antenati i quali realizzarono la riunificazione dell'antica Venezia di Terra, fondarono un impero basato sulla tolleranza e la libertà dei popoli, e diedero origine a quella che è conosciuta universalmente come la civiltà veneta.
quel miracolo, ci spiega Rubini era reso possibile dai saldi fondamenti su cui si basava la nostra cultura, profondamente cristiana e nemica per principio di ogni conflitto al suo interno, che invitava tutti i Veneti ad esprimere il loro meglio ispirandosi ai principi evangelici.
Mercoledì 18 ottobre 2006 - h. 20,30
Chiesetta dell’Angelo – Bassano del Grappa (VI)
FONDAMENTI RELIGIOSI DELLO STATO VENETO
Conferenza di Edoardo Rubini
La prima avvertenza da fornire a chi volesse studiare la Veneta Serenissima Repubblica, è che si tratta
di un ordinamento di Ancien Régime. Che vuol dire?
Questo termine, un po' snob, indica che questo Stato riceveva la sovranità da Dio.
Tanti corollari - e di estremo significato - discendevano da questo presupposto: prima di tutto, l'origine
divina faceva sì che le leggi della Veneta Serenissima Repubblica (comunemente chiamate "Parti")
fossero ricavate da un preesistente Diritto Naturale.
Dopo aver studiato l’ordinamento moderno, come è capitato a me all’Università, chi si avvicinasse alle
fonti giuridiche antiche resterebbe stupito nel rinvenire al loro interno citazioni di Sacre Scritture; la
sensazione è quella di imbattersi in un corpo estraneo ed eccentrico rispetto alla funzione che il diritto deve
svolgere.
Il solo fatto di trovare un passo del Vangelo ci mette in una prospettiva del tutto diversa nel guardare
ad una questione dedotta in giudizio: ci pare così di andare al di fuori della “visione liberale” fondata sul
relativismo, per scontrarci contro una verità assoluta.
Anche nel diritto penale gli ordinamenti moderni misurano ogni cosa in termini relativi; eppure, in
questo campo - secondo il senso comune - chi commette un atto illecito (il reato) non lede soltanto un diritto,
ma infligge un colpo a quei principî della convivenza che noi tutti avvertiamo come sacri.
Ecco che, subito, emergono alcune differenze tra la Giustizia che si faceva ieri e quella di oggi: sotto
l’Ancien Régime si difendeva qualcosa di sacro, mentre oggi lo Stato svolge una sorta di attività burocratica.
Vorrei, a questo proposito, citare alcuni pensatori che più di altri hanno teorizzato il sistema oggi in
funzione. Il primo è Cesare Beccaria. Nessuno negherà che egli sia il padre del diritto penale moderno:
Beccaria, infatti, sviluppa il pensiero degli illuministi venuti prima di lui e lo trasfonde nel sapere giuspenalistico.
In particolare egli si rifà all’inglese Locke, che ha costruito un’idea di Stato basato in modo esclusivo
sulla legge, e ai francesi Montesquieu e Voltaire: il primo teorizza la divisione dei poteri, il secondo pontifica
sulla libertà d’opinione e addirittura scriverà un commento di sostegno a “Dei delitti e delle pene”.
Ebbene, Beccaria trasfonde in quest’ultima opera le idee di quei tre pensatori, ridisegnando lo scopo
stesso dell’ordinamento giuridico. Nascono con lui principî fondamentali, come la presunzione
d’innocenza dell’imputato e quello di tassatività, secondo cui nessuno può essere condannato ad una
pena che non sia già prevista dalla legge e per un fatto che la legge stessa non abbia già prescritto come
reato.
In generale, nella Serenissima la rilevanza di un atto giuridico veniva calcolato non solo sulla singola persona,
ma su tutta la catena generazionale ascendente e discendente. In pratica, il reato era una macchia
impressa sia sulla discendenza, sia sul buon nome degli antenati. Si pensava, insomma, che onori e castighi
influissero su una grande quantità di persone collegate al diretto interessato. Sui diritti prevaleva sem2
pre il senso del dovere. Può dirsi, senza paura, che l’individuo era lo strumento del bene comune, mentre
oggi accade l’esatto contrario: si pretende di mettere il bene comune al servizio dell’individuo.
«La responsabilità penale è personale» afferma l’articolo 27 dell’attuale Costituzione italiana, ma la
morale di un tempo insegnava ben altre cose.
Vediamo da questi pochi concetti come si ribalti la prospettiva seguita per secoli: prima del costituzionalismo
liberale la giustizia criminale serviva a tutelare i buoni e a costringere al rispetto del prossimo
chi avesse voluto porsi al di sopra di un certo ordine immutabile. Ora centro della legge penale diviene la
posizione dell’accusato, la preoccupazione è proteggere il colpevole dal castigo voluto dall’Autorità.
Così, si nega che il giudice possa seguire criteri diversi dalla legge scritta: per esempio noon è possibile
condannare chicchessia in forza della consuetudine o della volontà generale, espressa dallo Stato e dalla
società in forma diversa (es. le pronunce precedenti). Sparisce così la priorità che il governo e la giustizia
si erano posti fin a quel momento, che era il mantenimento di un certo ordine sociale, come riferimento
imprescindibile di un popolo. E con quel riferimento svanisce anche il Diritto Naturale, che il Cristianesimo
aveva sempre riconosciuto essere una creazione divina ANTERIORE alla volontà umana (sulla
scorta di un preciso codice morale).
Nello Stato liberale il concetto di Diritto Naturale perde di significato: il Parlamento diviene il decisore
esclusivo del giusto e dell’ingiusto secondo gli umori delle maggioranze. Per esempio, se per secoli si è
pensato che la famiglia fosse composta da un uomo e una donna predisposti alla procreazione, oggi - in
un ordinamento liberale - il legislatore può svegliarsi alla mattina e decidere che in realtà si possano sposare
anche due persone dello stesso sesso; domani – chissà - il matrimonio si potrebbe anche contrarre tra
più conviventi, oppure tra esseri umani ed animali. Se per secoli il suicidio è stato un reato, per Beccaria,
a metà ‘700, questo non ha più senso, tanto Dio non s’intriga nei fatti umani: l’uomo dispone liberamente,
tra gli altri beni, anche della vita, che è solo sua perché non la deve a nessun Creatore.
In coerenza con questi assunti, oggi si pensa che lo Stato potrebbe pure incoraggiare l’aspirante suicida
nei suoi disegni mortiferi, rendendo l’eutanasia un fatto normale. Se le religioni tradizionali avevano
indicato l’omicidio come peccato mortale, questo oggi non importa, così vediamo montare vere e proprie
campagne a favore dell’aborto: Dio non esiste, il corpo è mio, l’essere che concepisco è un affare che non
riguarda altri. Pochi riflettono sul fatto che dietro a rivendicazioni particolari (qui vengono p.e. in gioco
“i diritti delle donne”) s’introducono a poco a poco convinzioni e mentalità che sovvertono le regole supreme
dell’esistenza.
In questo soqquadro, il diritto prescinde da ogni valutazione morale: la legge si atteggia a una sorta di
“mercanteggiamento” - tra individui; c’è uno scontro di forze politiche, il giusto per la comunità sarebbe
ciò che viene deciso dal più forte. GIUSTIZIA=FORZA. VERITA’=SOMMATORIA DI OPINIONI.
Qui bisogna fare i complimenti a relativisti, materialisti, positivisti per questo bel sistema, in base al
quale 23 secoli di Civiltà occidentale sono cancellati in un colpo solo. Socrate, Platone, Aristotele avevano
a lungo spiegato la Verità in sé, ora invece i geni presi a modello dalla scuola pubblica spiegano che la
Verità non esiste più, ci sono tante verità quante la fantasia umana ne può creare.
Con l’800 la giustizia penale finisce di essere un fatto collettivo ed un problema coscienza morale. Il
sistema liberale la trasforma in un conto da regolare tra reo e principe (lo Stato). Lo stesso condannato va
sottratto il più possibile ad un senso di Giustizia morale (la quale, di per sé, non esiste più). Il sistema di
un tempo, che peraltro comportava minore invadenza delle leggi e attribuiva maggiori responsabilità in
capo ai giudici, permetteva forme di clemenza mirate, quindi concesse se meritate per davvero. Oggi, al
contrario, si osserva che chi è sottoposto all’azione penale viene spesso trasformato in un numero dai rigidi
meccanismi procedurali che dovevano tutelarlo, mentre invece lo espongono a veri abusi.
Detto per inciso, davanti un’attenta disamina storica lo stesso principio della divisione dei poteri si
dimostra un dogma imposto dalla scuola liberale. Andrebbe demistificato. Alla prova dei fatti è impensabile
erigere barriere insormontabili tra una funzione dello Stato e l’altra. Ancora di più, possiamo affermare
che il modello statuale della Serenissima dava ottima prova di buon funzionamento, accontentandosi
di distinguere l’esercizio di una funzione da un’altra: ciò significa che uno stesso organo poteva
svolgere - in momenti diversi - ora attività normativa (o amministrativa), ora giurisdizionale: ogni funzione,
però, era svolta con procedure specifiche.
Il nesso che legava questa pluralità di funzioni era dato dalla competenza per materia: per esempio il
Senato ora legiferava, ora amministrava, ora giudicava sulla navigazione ed altre materie definite, con il
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vantaggio di specializzarsi tecnicamente su di esse. Si faceva così riferimento a principî giuridici omogenei
e si evitavano discrasie con altri organi.
Il concetto di divisione, invece, porta con sé il pericolo di frammentare la visione “pubblica” dei problemi,
che più utilmente dovrebbe restare unitaria: una formale indipendenza di un pezzo di Stato
dall’altro porta alla frantumazione dell’idea stessa di bene comune (che non è affatto garantita dalla pretesa
egemonia della legge scritta).
Come dicevamo, la filosofia relativista trionfa sull’attuale sistema politico dopo le elaborazioni del tedesco
Hegel, per il quale la verità si ricava come prodotto di sintesi tra una tesi ed una antitesi. Il materialismo
storico segna la vittoria dell’uomo divinizzato sulla Natura e su Dio. In gioco troviamo solo forze
materiali; la politica non risponde più ad un dovere superiore, ma diviene il campo di battaglia dove tutto
è permesso, essendo deciso dai rapporti di forza tra i partiti. Il liberalismo formato Hegel, questa lettura
artificiosa ed artificiale della realtà, passerà di mano da questi all’ideatore del partito Comunista, Karl
Marx, per andare poi a formare anche l’ideologia fascista ed il pensiero dello stesso di Adolf Hitler in
Mein Kampf.
Questa digressione ci fa capire che la contrapposizione tra sistemi liberali e regimi totalitari, recitata
come un Rosario a scuola e dai mass media, è pura ideologia, fumo sugli occhi. Il liberalismo in sé è assolutismo:
una volta negato Dio, chi s’impadronisce del potere non trova più alcun limite all’esercizio e
alla legittimazione del proprio potere, come a metà ‘900 aveva osservato la intellettuale francese Simone
Weil.
L’idolatria praticata dai sistemi dittatoriali, quel culto della personalità che morto il tiranno appare in
tutta la sua pena e in tutto il suo ridicolo, è nota ed evidente. Meno nota è l’idolatria che predomina nei
sistemi cosiddetti liberali. D’altronde, da un paio di secoli, lo spettacolo della politica non muta rispetto
al quadretto offerto nella Parigi di fine ‘700 dal Comitato di Salute Pubblica e dalla Convenzione: sradicato
il Cristianesimo, si dice che d’ora innanzi comanderà la Virtù della Legge.
Pochi mesi dopo aver approvato la Dichiarazione dei Diritti del Cittadino e dell’Uomo - solennemente
sancendo la libertà di pensiero, di religione, di proprietà privata e di qualsiasi altra cosa - si delibera il genocidio
dei Vandeani perché questi maledetti… vogliono restare cattolici! L’indomani delle prediche
contro l’arbitrio dei giudici (che Montesquieu voleva trasformare in bocca delle leggi), il Comitato di
Salute Pubblica robespierrano spedisce alla ghigliottina gli avversari politici che lo criticano, in forza di
un semplice mandato d’arresto del governo ed un processo farsa, dove i giudici ignorano la legge, obbediscono
ciecamente e amoralmente a direttive politiche, fatalmente trasformandosi nella "bocca
dell’arbitrio”. Tutto ciò non accadeva nel tanto vituperato Ancien Régime d’ispirazione cristiana.
Perché vi ho spiegato come è nato il diritto moderno?
Per metterci tutti nella prospettiva dello sviluppo storico delle istituzioni di oggi, per capire che per
millenni la Giustizia si è basata su un certo ordine morale; poi, sulla punta delle baionette “democratiche”
di Napoleone, è arrivato l’Illuminismo ed è cambiato tutto. Si è scardinato un ordine persino precedente
all’Avvento di Gesù Cristo. Il Cristianesimo, infatti, aveva elevato e portato a perfezionamento - ma non
rivoluzionato - le concezioni più antiche che appartennero al mondo antico e classico.
Al contrario di quelli cristiani, gli ordinamenti liberali formano un diritto cosiddetto "positivo", vale a
dire posto per intero (positum) dal potere legislativo: in tal modo lo Stato moderno si eleva ad autorità
suprema, al di sopra persino del Padreterno.
I giuspositivisti adorano come un feticcio lo Stato da loro edificato, che il più delle volte è espressione
di poteri forti, conflittuali ed occulti. Vi dice qualcosa la frase “Repubblica una ed indivisibile”?
L’ho trovata riferita alla rivoluzionata Repubblica Francese nel Trattato di Campoformido (1797). Ma
come? – mi chiedo io: le truppe napoleoniche hanno appena terrorizzato l’Europa, hanno appena massacrato
e rubato più che potevano, il Generalissimo sta per mettere la firma su un Trattato con cui si annette
la terra d’altri e, con tutto questo, definisce la Francia “una e indivisibile”…
Si noti che gli Stati Cristiani nella loro storia millenaria avevano dato per scontati gli spostamenti di
confini (mutamenti politici che, in effetti, c'erano sempre stati e sempre ci saranno): i territori, un tempo
venivano conquistati, perduti, scambiati, addirittura talvolta acquistati con somme di denaro. Mai i sudditi
venivano fagocitati contro il loro consenso da “Stati Unici ed Indivisibili” con diritto di vita e di morte
su di loro: la gente viveva da sempre in piccoli ambiti territoriali, dotati di forte autonomia, basata sulla
tradizione locale. Si vede bene che il neonato Stato liberale si presenta subito come realizzazione di quel
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Leviatano di matrice hobbsiana: appena nasce a fine ‘700 mena stragi e reprime a più non posso, a furia
di guardie nazionali e polizia (segreta).
C’è da domandarsi di quale natura sia il possesso esercitato da “Repubblica una ed indivisibile”…
Guarda caso, la formuletta viene inserita nel 1947 anche all’interno dell’art. 5 della Costituzione Italiana.
L’Italia diviene per decreto “una e indivisibile”, benché abbia appena perduto vari territorî in seguito ad
una capitolazione senza onore in una guerra disastrosa: anzi in quel tempo non sa neppure che fine farà la
zona “A” (Trieste) e la zona “B” (l’Istria). “Una e indivisibile”: che vuol dire?
Si rifletta che lo Stato Veneto, come tutti quelli antichi, non nacque anticamente in forza di una Carta
scritta che pretendesse di modellare alla perfezione una comunità o un’organizzazione politica. Tale impostazione
poteva solo conseguire all’intento illuminista di cancellare la storia, “per far uscire l’uomo dalla
caverna” dell’oscurantismo (cattolico!).
La Repubblica Serenissima fu schietta ed immediata espressione di un popolo già formato da oltre un
millennio, avente una propria cultura ed una propria identità. Questa sostanza non necessita di proclamazioni:
i Veneti, proiettano l’immagine del loro Stato su un piano alto, sacro e metafisico: la Verità rivelata.
Ciò si deve al fatto che la sovranità discende loro da Dio.
San Marco protettore della Veneta Nazione è il perno su cui ruota la consapevolezza che il nostro popolo
ha di sé. Il patriziato veneziano che ne reggeva le sorti non era una fonte divinizzata di potere
umano, teocratica o autocratica, come accadrà per i Savoia nello Stato ottocentesco. Al contrario.
Qui abbiamo un'intera Nazione consacrata ad un Evangelista, uno dei quattro testimoni che annunciano
al mondo la salvezza in Cristo, grazie alla nascita, morte e Resurrezione del Salvatore, Figlio unigenito
di Dio.
Per l'odierno homo liberalis (nato con la Rivoluzione Francese), forte delle sue certezze ideologiche, il
fondamento religioso dell'identità nazionale è duro da digerire. Egli è stato persuaso da Rousseau che
l’appartenenza ad una comunità politica si fonda sui diritti umani. Eppure basterebbe riflettere sul fatto
che, dalla preistoria ad oggi, tutti i popoli antichi hanno ricondotto il centro della vita pubblica ad un'unica
divinità nazionale, riconosciuta e venerata dal popolo (e non certo creata dal potere politico). Si possono
richiamare Atena, dea nazionale degli Ateniesi, o Reitia, divinità degli antichi Veneti nei secoli del
paganesimo, ma faremmo torto a tante analoghe Civiltà, che avevano la stessa base spirituale e che qui
non possiamo ricordare.
Per i Veneti, quindi, la Fede Cattolica fu il centro propulsore della propria identità.
Altri potrebbero obiettare che, se più popoli si richiamano ad uno stesso Credo (in questo caso il Cristianesimo),
ciò offuscherebbe l’identità di ciascuno. Anche questo è un pregiudizio di chi non riflette:
occorre osservare che l'Annuncio Evangelico si propaga con lo spirito della Pentecoste in lingue diverse
ed è destinato a genti diverse, le quali non sono affatto tenute ad uniformarsi ad un modello astratto.
Anzi, la Fede Cattolica presuppone che ogni popolo debba mantenere l'identità e la libertà loro
proprie; ciò perché la conversione a Cristo non rivoluziona l'identità dei gruppi, ma ne esalta le specifiche
doti spirituali e morali.
I Veneti di oggi restano increduli davanti al fatto evidente (e dichiarato in ogni forma ufficiale) che a
legittimare l'esistenza dello Stato vi era la Fede. Questo appare in contrasto con il fatto che la religione
del nostro popolo era custodita da un centro di potere straniero, quale era Roma: non solo istituzione religiosa
(in quanto Chiesa Cattolica), ma anche istituzione politica (in quanto Stato Pontificio). Ma anche
questa contraddizione è solo apparente.
Viene ricordato come, talora, Roma abbia abusato della propria autorità spirituale, lanciando più volte
formidabili interdetti - cioè scomuniche generali - contro la Serenissima (e altri Stati), per questioni di
mera natura politica: l'esempio classico ci è fornito dall'espansione veneziana su territori che il Vaticano
riteneva cosa propria, come il Ferrarese: ne abbiamo uno di pesante emesso per esempio durante la guerra
contro la Lega di Cambrais.
Ancora, si ricordano i profondi contrasti insorti nel '600 tra Roma e Venezia, dopo la Riforma Cattolica.
In quel travagliato secolo, il Doge Leonardo Donà dalle Rose e il Consultore de Iure, il Padre servita
Paolo Sarpi, furono visti come titani che si opponevano alle intromissioni della Santa Sede in materia politica
e di giurisdizione. Roma disapprovava la politica veneziana in materia di eresia, rimproverava alla
città lagunare di limitarsi ad un’opera di contenimento delle forme più virulente di dissenso religioso, lasciando
che si stampasse una quantità di libri proibiti dall’Indice e condannando gli eretici più pericolosi
a pene miti.
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Poi, la crisi. Papa Borghese, Paolo V, pretendeva di farsi consegnare due religiosi condannati per reati
comuni: tale giurisdizione apparteneva però legalmente al giudice secolare, quindi lo Stato voleva punirli.
Non contento, Paolo V ingiungeva alla Serenissima di revocare le leggi che limitavano e regolavano la
mano morta, cioè l’accumulo sproporzionato in capo ai monasteri di proprietà immobiliari ottenute con
donazioni e lasciti testamentari; tendeva quindi a formarsi una proprietà talmente estesa che, restando inattiva,
provocava l’impoverimento delle aree agricole, quindi lo Stato cercava di rimettere queste risorse
nel circolo produttivo.
Inaudito che il Capo della Cristianità volesse sostituirsi ad un legittimo Stato, per di più cattolico, nel
modificare o abolire leggi; poiché il Veneto Governo non cedeva, veniva lanciato l’Interdetto, vale a dire
una scomunica collettiva con conseguente divieto al clero veneto di tenere Messa ed impartire sacramenti.
Ecco che la Repubblica formava una commissione d’esperti per resistere alle ingiunzioni papali, volendo
evitare scontri troppo duri: questa venne guidata dal Consultore in iure, fra Paolo Sarpi. Di qui una serie
di provvedimenti: il Senato Veneto vietò che fosse esposto al pubblico il breve pontificio con cui si inibivano
le sacre funzioni ed ordinava, invece, al clero locale di proseguire indisturbato nella vita religiosa di
sempre. Solo alcuni ordini religiosi s’attenevano alle direttive romane; il Senato decideva così di espellere
dallo Stato l’ordine riottoso dei Gesuiti, sul presupposto che tutti devono restare fedeli alla Patria prima
che ad altri poteri e che la Serenissima difende la Fede in ogni caso.
A ben vedere, si trattava solo di problemi politici: nessun contrasto con il Soglio Pontificio ha
mai intaccato la sfera dottrinale. L'osservanza veneta dell'ortodossia cattolica fu indiscussa. Sarpi
veniva definito un eretico da teologi e canonisti filo-curiali, ma a torto. Egli mise in discussione un solo
dogma, l’infallibilità delle pronunce papali, che in realtà Roma aveva creato a suo uso e consumo per difendere
interessi temporali e non l’osservanza della comune dottrina cattolica. L’infallibilità, infatti, appartiene
alla Chiesa nel suo complesso.
La contesa dell’interdetto terminava con la sostanziale vittoria di Venezia: dopo un anno terribile, durante
il quale il Soglio Pontificio fece di tutto per trascinare gli Asburgo in guerra contro i Veneti, intervenne
la Francia a mediare: l’interdetto veniva ritirato senza che alcuna legge veneziana fosse toccata,
mentre la città lagunare si limitava a consegnare i due religiosi condannati (concessione di scarso rilievo
politico, dato che la questione era solo di principio).
In generale, merita di essere approfondito il ruolo sociale della Chiesa Veneta.
I Veneti considerarono sempre lo Stato sovrano e la Chiesa locale come cose appartenenti a tutta la
comunità e vitali per essa. L'apparato statale veneziano fece sempre e solo quanto si aspettava questo suo
popolo, indomito e coraggioso.
Gli albori della Chiesa Veneta sono legati al Patriarcato metropolita di Aquileia, originario centro
d'irradiazione della predicazione evangelica, che dall'Alto Adriatico si propagò al comprensorio alpinopadano.
La Fede che accomunava i centri venetici a partire dal periodo tardo-antico non era, tuttavia, vissuta
in comunione con il Papa. I vescovi locali, come pure il Metropolita, non avevano accettato il Concilio
Costantipolitano II del 553, per le equivoche e brutali interferenze dell'imperatore Giustiniano.
All'inizio del 600 il Patriarca con tutto il popolo riparò a Grado per proteggersi dall'invasione longobarda
che investì anche Aquileia. Pur non dovendo fronteggiare particolari violenze, si decise per prudenza
di restare in quella sede (i Longobardi occuparono la Venetia di Terra separandola dall'antica regione
Venetia et Histria, sicché dal VII secolo la Venetia Maritima rafforzò la sua forma politica).
Più tardi il Patriarca residente a Grado (con i fedeli venetici) si riunì con la Chiesa Romana, perché si
era esaurito il nefasto influsso teologico dell’Impero Orientale, tuttavia i Cristiani soggetti al dominio
longobardo lo disconobbero ed elessero un proprio Vescovo. Il paradosso è che quando anche quest'ultimo
abbandonò lo scisma, egli continuò a rimanere in carica e ad atteggiarsi come il vero Patriarca avente
autorità sulla Venetia. Nascerà così il paradosso di avere due Patriarcati distanti una manciata di chilometri
ed in lotta tra loro; tuttavia, il Patriarcato di Grado resterà in ogni tempo la roccaforte della Chiesa
nazionale veneta e Venezia ne difenderà sempre con successo le prerogative presso il Soglio Pontificio,
che anzi darà man forte ai Veneti vedendo in loro fedelissimi osservanti della Dottrina.
Per altro verso, il rapporto tra Grado e Chiesa bizantina (tramite l’Esarcato ravennate) continuò ad essere
improntato all’indipendenza anche in epoche successive. L’autorità bizantina in fatto di religione
non fu mai riconosciuta dal clero veneto (fatto inimmaginabile se i tribuni e i primi dogi fossero stati fiduciari
dell’Esarca, assurdo sostenuto ancor oggi dalla storiografia ufficiale).
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Eloquenti i fatti conseguenti alla rivolta divampata in Italia e un po’ ovunque nel Mediterraneo contro
l’editto iconoclasta dell’Imperatore Leone III l’Isaurico. Egli nel 726 emanò le prime direttive con cui disponeva
di osservare il culto cristiano ma senza far uso di immagini sacre, ordinando anzi di distruggerle.
A Roma e a Ravenna i popoli cristiani (da sempre gelosi cultori dell’iconografia sacra) si sollevarono con
formidabili rivolte. Ne approfittarono i Longobardi per occupare l’Esarcato e la Pentapoli scacciandovi
tutti i funzionari imperiali. L’esarca Paolo nel 727 scappò precipitosamente da Ravenna in nave, riparando
verso la più vicina nazione neutrale: la Venetia.
Il governo veneto fu raggiunto da un’accorata lettera (indirizzata ufficialmente al Patriarca di Grado)
del Pontefice romano che temeva il predominio del principe Liutprando e sollecitava i Veneti ad intervenire,
prendendo le parti del deprecato Impero Bizantino, che pur responsabile della crisi in Italia, ora non
era più in grado d’intervenire. In breve la flotta veneta comandata dal Doge Orso si precipitò a Ravenna,
sconfisse i Longobardi, la liberò e reinsediò l’Esarca.
L’Esarca Paolo si era rifugiato in Laguna perché era l'unico luogo ove potesse ritenersi al sicuro. I
Venetici, da sempre liberi politicamente e religiosamente, lungi dal piegarsi all’editto imperiale avevano
infatti perseverato indisturbati nel culto delle immagini, né ebbero bisogno di rovesciare il governo, come
accadde nei ducati italici sotto il dominio bizantino, né avevano nessun motivo politico per contrastare
l’imperatore (anzi, lo soccorsero respingendo i Longobardi).
La Chiesa locale era formata per intero da Veneti. I ministri del culto erano eletti dal popolo, sicché
quelli erano i "loro" preti. I Vescovi erano nobiluomini, tutti estratti dal Patriziato veneziano, come pure -
è ovvio - il Patriarca. Per secoli furono anch’essi eletti dal popolo riunito in Arengo, ma a partire dal Rinascimento
vi provvide il Senato e venivano mandati a Roma solo per l'investitura formale.
Roma, dicevo, controllava solo la dottrina e, naturalmente, l'elezione degli organi di governo del Vaticano
(a nessuno, allora, veniva in mente di contestare la potestà temporale propria della Chiesa).
Ma quanto contava la Fede nella Repubblica dei Veneti? Vediamo un episodio di storia più antica.
Torniamo con il pensiero al 13 agosto 1311, quando moriva il Doge Pietro Gradenigo.
La situazione era drammatica: la Nazione era ancora agitata per le macchinazioni dei Tiepolo, si era
appena conclusa la costosissima guerra con Ferrara, non era stato tolto l'interdetto, né si erano ricomposti
i contrasti con Padova, i commerci erano fermi, a Zara si era avuto il rovescio del governo.
A "Pierazo" Gradenigo, ancora scomunicato a causa del primo Interdetto, furono negati i funerali di
Stato ed il suo corpo fu deposto nella chiesa di S. Cipriano a Murano, in una tomba senza iscrizioni.
Riunitosi il Maggior Consiglio, i suffragi caddero sul N.H. Stefano Giustinian. Ma l'illustre senatore,
che aveva sostenuto tante ambascerie, si sentiva chiamato ad un incarico ancora più importante: prendeva
commiato dai suoi pari e si faceva monaco nell'abbazia di San Giorgio Maggiore. Tutto da rifare.
Di nuovo i patrizi si cimentavano con l'intricato sistema elettivo del Doge. I 41 elettori avevano appena
assistito alla Messa nella stanza del Senato e giurato sul messale il rispetto delle procedure. Neanche
lo Spirito Santo sembrava, però, sciogliere le loro incertezze e alcuni di loro gironzolavano indecisi
per la stanza del palazzo. Affacciatisi alla finestra videro che fuori, davanti al palazzo, stava passando il
N.H. Marin Zorzi seguito da un servo con un gran sacco sulle spalle. I patrizi si chiesero dove stesse andando
in quelle circostanze. Il gentiluomo era diretto al pianterreno, dove erano collocate le prigioni, e
nel sacco c'era roba da mangiare per portare conforto ai carcerati come egli era solito fare, avendo fama di
uomo misericordioso ed in nomina di santo.
A tutti parve che non potesse capitare maggior fortuna che avere una persona di tale levatura al vertice
dello Stato; fu così che Marin Zorzi divenne 50° Doge della Serenissima. Morì undici mesi dopo. Ma
diamo un'occhiata al suo testamento: impegnava gli esecutori testamentari a costruire nei pressi della
chiesa e del monastero di San Domenico (da lui stesso fondati) un asilo per bambini poveri o abbandonati
e provvedeva ad ogni necessità dell'istituto con un lascito.
Questa disamina preliminare è necessaria per far subito chiarezza su un punto preciso: assieme all'amor
di Patria, la Fede era la base di tutto, anzi le due cose coincidevano.
Le due fonti del potere spirituale e temporale, Chiesa e Stato, erano il baluardo di un ordine sociale
fondato su principî superiori alla dimensione umana. Chiesa e Stato erano entrambe fonti autoritative
di origine divina. Ognuna operava nel proprio autonomo ambito, per formare un inscindibile tutt'uno
assieme al popolo.
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Nell'Enciclica Libertas il Pontefice Leone XIII accosta l'unione tra Chiesa e Stato all'immagine della
commistione di anima e corpo, di cui si compongono gli esseri umani: la loro separazione darebbe senz'altro
luogo al decesso dell'organismo vivente, egli dice.
A quei tempi il popolo era il vero protagonista della storia: il suo centro esistenziale era la Fede. La
sua identità era data da quanto la Tradizione trasmetteva di generazione in generazione. Schematizzando,
possiamo affermare che era lo Stato ad adeguarsi al popolo, non il popolo al modello di Stato, come avviene
in costanza di leggi rivoluzionarie, come dicevo prima.
Oggi, infatti, in tutti gli Stati moderni vigono Costituzioni che ricalcano più o meno pedisseque quella
tanto conclamata Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo, divinizzata con i fasti parigini del 1789.
Con essa è mutata la natura del potere politico: lo Stato ha perso il suo ruolo di custode della tradizione
culturale a difesa del popolo, per diventare, invece, il creatore ideologico di tutta la realtà.
Tutto è finalizzato a forgiare l'Uomo Nuovo, le leopardiane magnifiche sorti e progressive, la Società perfetta
(come abbiamo constatato nei successivi totalitarismi comunisti e fascisti, che del liberalismo sono
figli illegittimi, ma del tutto naturali).
Vi sono aspetti fondamentali della storia veneta che rimangono ancora in ombra nella coscienza generale
e che pure danno il senso di un sistema di vita (prima ancora che politico) che si basava davvero
sul consenso e sulla partecipazione di tutta la comunità, tanto che potremmo definire la nostra Repubblica
"democratica" in senso autentico.
In altre mie conferenze ho sottolineato come lo Stato Veneto avesse una struttura federale, cioè era
composto da città e terre che fondamentalmente si amministravano da sé con enormi poteri di autorganizzazione
un po’ in tutti i campi. Persino il sistema delle Arti rimetteva la gestione delle varie attività commerciali
e produttive in capo alle singole organizzazioni di lavoratori, pur sotto la sorveglianza pubblica.
Ma qui dobbiamo soffermarci sui principî spirituali che reggevano la Repubblica di San Marco. Il
rapporto tra potere temporale e spirituale è stato oggi liquidato dallo Stato liberale con la formuletta “libera
Chiesa in libero Stato”, nel senso che lo Stato sarebbe la vera autorità pubblica, mentre la Chiesa una
sorta di istituzione privata, parificata alle mille altre sette religiose che si reggono sui culti più inauditi.
Dietro un discorso di apparente libertà e tolleranza si cela la più terribile violenza che il potere politico
poteva consumare ai danni del popolo. Se è vero che la Fede è la base valoriale su cui si basa l’identità di
una Nazione, allora lo Stato giacobino che oggi chiamiamo “liberal-democratico” è quanto di meno rispettoso
della libertà si possa pensare.
Esso esprime in modo spietato quel capovolgimento nel concepire il mondo che si è avuto con la Rivoluzione:
un tempo Dio era visto come il Creatore dell’uomo e fungeva da fattore motivante la vita su
questa Terra. La vita di ciascuno, infatti, era subordinata al senso del dovere, a quei grandi riferimenti
come la Patria e la famiglia, cui un uomo doveva sacrificare tutto se stesso.
Con l’avvento del sistema liberal-rivoluzionario, pressoché tutte le categorie concettuali sono state
sconvolte e pervertite dal loro significato vero ed originale. La Ragione per secoli si è nutrita di devozione
in Dio, riconosciuto come l’origine di ogni bene. Gli Illuministi hanno contrabbandato la ragione come
il baluardo del materialismo e del relativismo. Ragionevole, da allora, è ogni cosa riproducibile in laboratorio,
in omaggio ad uno scientismo che pretende di limitare il vero agli esperimenti.
La Natura nella Civiltà cristiana è la meraviglia della Creazione e l’uomo vi è inserito in una forma
armoniosa al suo vertice, come essere morale e dotato della possibilità di riconoscere Dio. Il pensiero
moderno capovolge questa prospettiva: la natura è ora matrigna, cioè costringe ed opprime l’uomo, oppure
è vista come un desiderabile stato di amoralità al quale l’uomo è chiamato a conformarsi, abbandonando
il Trascendente.
Virtù era la potenza umana che l’uomo attingeva da Dio, in quanto capace di aderire ad un ideale superiore;
con Rousseau e Robespierre la virtù diviene l’apogeo dell’esaltazione umana.
I Patrioti durante la Rivoluzione sarebbero la “Guardia Nazionale”, la soldataglia che va a menar
strage in Vandea, in Bretagna e contro altre città francesi che non accettano il nuovo ordine: i contadini e
i nobili cristiani che difendono le loro case (cioè i veri Patrioti) vengono ribattezzati “banditi”; così come
le genti del Sud Italia, che 60 anni dopo passeranno alla storia con il nome di “briganti”per essersi opposte
alla conquista anticristiana di garibaldini e savoiardi sulla loro terra (anche i Veneti di oggi, se s'indignano
contro lo stravolgimento del loro territorio cagionato da immigrazione selvaggia e sradicamento
culturale, sono chiamati “razzisti”).
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Libertà un tempo era quella in Dio, cioè la facoltà di scegliere il Bene: si è oggi dimenticato che la libertà
è un mezzo, non un fine. Oggi abbiamo la Libertà è “da Dio”. Libero sarebbe chi sente
un’orgogliosa autosufficienza da ogni principio (finendo inevitabilmente preda del male).
Oggi l’uomo vede il fine dell’esistenza nei propri interessi materiali. Dio è divenuto la proiezione di
noi stessi. In una parola, Dio è oggi inteso come una creazione umana. In questo senso, la cosiddetta libertà
religiosa ha annullato la Fede nei più. Nelle concezioni liberal-massoniche Dio è divenuto solo
un’opinione!
Se l’uomo è libero di pensare e vivere ogni cosa a modo suo, ci dicono, perché autocastrarsi, perché
rovinare la propria libertà ipotizzando un noioso e inutile essere superiore che ci giudicherebbe? Va da sé
che entrando nella mentalità comune, l’ateo è furbo, il credente è un povero sciocco.
In uno Stato liberale, se vogliamo dirla tutta, Bene e Male si sono invertiti. Esistono i regolamenti di
Stato decisi dai Parlamenti, che dicono cosa si può fare e cosa non si può fare. La morale è quindi solo
un’opinione. La religione una droga, come diceva quel signore scapigliato e con la barba arruffata. La
Chiesa, infine, è un’associazione privata, che può dire ciò che vuole, proprio come può dire ciò che vuole
chi professasse una qualsiasi depravazione.
Questo è il mondo che abbiamo intorno, Signori! E questo, secondo il pensiero comune, non si può
cambiare. “Non si può tornare indietro”: quante volte avremmo sentito questa frase?
Però io chiedo: “Chi l’ha detto?”
Qui ci viene incontro l’insegnamento della Veneta Repubblica. Il sistema che i Veneti avevano adottato
era giusto ed è tuttora all’avanguardia, soprattutto se confrontato al caos odierno.
In base a quanto abbiamo prima spiegato, possiamo ora formulare una precisa distinzione.
La Serenissima aveva praticato la LAICITA’ dello Stato.
Lo Stato moderno, per es. la Repubblica Italiana, pratica un sistema ben diverso: il LAICISMO.
Dov’è la differenza?
Praticamente siamo agli antipodi.
Lo Stato laico, come lo intendeva la Serenissima, presupponeva una DISTINZIONE tra la sfera gestionale
della politica e quella della religione. Nello Stato Cristiano esisteva la Divina Maestà, che era
governata dalla Chiesa, mentre lo Stato politico (Maestà Temporale) non era retto da un’autorità religiosa.
Ancor oggi si legge in certe deliberazioni dello Stato Marciano, la premessa “Cazadi i papalisti”.
Che vuol dire? Bisogna sapere che nei Consigli si teneva nota di tutte le famiglie aristocratiche che
avevano ricevuto privilegi ecclesiastici o avevano comunque rapporti con la Curia Romana. Tutti i nobili
membri di questa categoria, quando le deliberazioni investivano gli interessi della Chiesa, erano chiamati
per nome: allora si dovevano alzare per essere “cazadi de capelo”, cioè mandati ad attendere in un’altra
stanzetta per rientrare dopo che le relative operazioni di voto fossero terminate.
Questa esclusione testimonia quanta attenzione fosse posta a prevenire il conflitto d’interesse; ma vi
erano anche altre più importanti manifestazioni del principio di laicità. Mai si vedrà la Repubblica disporre
norme su affari spirituali di competenza della Chiesa, che pure riguardavano rapporti civili, come
ad esempio il matrimonio (i relativi provvedimenti avevano carattere esecutivo: per esempio, si disponevano
misure contro chi avesse violato le norme di diritto ecclesiastico e provocato disordine sociale). Insomma,
la laicità dello Stato Veneto garantiva tutti. Questo non vuol dire che lo Stato fosse indifferente
alla religione, posta invece come fondamento dello Stato stesso, discendendo la sovranità da Dio. Nessuno
avrebbe potuto governare, di conseguenza, se non fosse stato di Fede cattolica (come lo era il popolo).
Il LAICISMO moderno è tutt’altra cosa. Vuol dire che lo Stato traccia una SEPARAZIONE NETTA
con i valori etico-religiosi, prescindendo da un preesistente ordine morale, isolandosi da qualsiasi scrupolo
che discenda dalla coscienza. Sono spalancate le porte dell’arbitrio totale. Senza un retroterra, un patrimonio
nazionale di Fede e di Tradizione, lo Stato (soprattutto chi lo controlla) ha mano libera nel fare e
disfare a suo piacimento. La sovranità nel sistema attuale discende da un popolo privo di quell’identità
profonda data dalla spiritualità; piuttosto l’identità nazionale è definita da segni materiali ed esteriori
(simboli, bandiere, uniformi, eserciti, squadre sportive, o anche la lingua).
Questo Stato liberale laicista proietta la sua pretesa neutralità (un assurdo senso dell’obiettività che in
realtà è il non essere, che presume una superiorità rispetto ad ogni orientamento valoriale) in un’ideologia
che poi, agli effetti pratici, si scopre non essere affatto neutra: l’ideologia liberale. Essa è stata partorita
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in ambienti iniziatici ed occulti, soprattutto tra ‘600 e ‘700 e - volendo grattare un poco sotto quella vernice
di ipocrisia di cui si è sempre ammantata - diciamo pure che sin dalla sua genesi fu ideata allo scopo
di sradicare il Cristianesimo.
Ha raggiunto questo scopo? A prescindere da come ognuno la pensi, credo che possiamo tutti concordare
che sì, il liberalismo ha raggiunto il suo scopo. Oggi viviamo in una società ove Cristo non regna.
L’uomo si è “liberato” (tra virgolette) da Dio, anche se sempre più gente comincia a dubitare sulla
bontà di questo affare.
Non sarei d’accordo che non si possa tornare indietro. Il modello razionale e coerente di società era
quello che avevamo con il Veneto Governo: la società, infatti, aveva una solidissima base spirituale, morale
ed identitaria. La sana laicità della Serenissima non obbligava, né violentava nessuno. Diceva solamente:
questi sono i Veneti, questa è la nostra Fede, questa è la nostra cultura nazionale. A chi non è
d’accordo daremo il suo spazio, ma non potrà pretendere che noi ci annulliamo davanti a lui, perché viene
sulla nostra terra e la nostra identità non gli piace. Scusate, ma dal momento che un popolo non è padrone
in casa sua, quale libertà è possibile?
La Fede non è folklorismo, è la spina dorsale di una società: senza la prima la seconda si spegne un
po’ alla volta, fino ad assumere le fattezze di un mollusco informe. La religione dei Nostri Padri, difesa
con lacrime e sangue, può - secondo voi - essere messa sullo stesso piano di quella all’ultima moda
U.S.A., come Scientology, o inventata ispirandosi ad improbabili stregonerie celtiche, come la Wikka? E
che dire del satanismo, anche questa è da ricomprendere nel pret a porter delle libertà borghesi?
Certo, a chi guarda solo al proprio comodo, apparirà oziosa la questione di quale sarà il mondo in cui
vivranno i nostri figli. Ma cominciamo a dire la verità. Basta, per favore, con le menzogne di Stato, con
questa scuola pubblica che genera presunzione, che dipinge il Medioevo Cristiano come un inferno e che
mostra la Chiesa intenta solo a bruciare gli eretici.
Secondo Voltaire e compagnia, i valori della tradizione rappresentavano il modo con cui le classi elevate
avrebbero soggiogato il popolo. Io con le mie ricerche ho dimostrato l'esatto contrario: nel mondo
antico la visione religiosa era tipica del popolo, retaggio della Civiltà contadina, d’ascendenza preistorica.
La nobiltà vi si adeguava, la elevava al massimo livello, la difendeva con pari fervore. Le leggi non costituivano
un feticcio, come oggi sono trattate all’Università.
Le leggi della nostra Santa Repubblica non erano un valore in sé, ma solo il presidio di una precisa
visione del mondo: contava quella e basta.
Quale sia il vero sentire del popolo lo si vede ancor oggi: quando nelle aule scolastiche qualcuno mette
le mani sul Crocefisso, non sono mai i pubblici poteri a rivoltarsi. Non gli insegnanti di Stato, non i
partiti politici (tutti per definizione liberali), non il Ministero. No, signori. L’apparato è il fedele esecutore
dei dettami giacobini: via la Chiesa Cattolica, poi via il Cristianesimo, infine via Gesù Cristo.
Sono invece le mamme a disperarsi per le minacce portate alla Croce, è il popolo, la gente di paese,
che vuole salvare le Sacre Immagini. Il sistema politico illuminista, partorito dalla Rivoluzione Francese
e disseminato in ogni dove dalle conquiste napoleoniche, è nato storpio; si fonda sullo scontro tra partiti
ebbri di retorica e di ideologia, ma sprovvisti della benché minima nozione di bene comune.
La Serenissima, invece, è rimasta stabile nei secoli perché riconosceva che il vero Bene discende da
Dio. Difatti, vigeva il divieto assoluto di formare non dico partiti, ma una qualsiasi intesa elettorale, cartello
politico, o alleanza prefissata. In seno al Maggior Consiglio, al termine delle elezioni, non ci si poteva
neppure complimentare con l'eletto per l'acquisto della carica.
Per l'elezione del Doge era vietato ai nobili persino di riunirsi in casa di qualcuno per discutere, al
massimo era consentito accordarsi tra un gruppetto di parenti stretti (a fronte di un Consiglio nel quale votavano
un migliaio e mezzo circa di elettori). I senatori dovevano mantenere il più assoluto riserbo sull'attività
istituzionale, non potevano esternare commenti neppure in casa propria, neanche facendo cenni
con il viso. Il Doge ed il Minor Consiglio non potevano leggere la corrispondenza, né ricevere ospiti
stranieri, se non tutti insieme durante le sedute, né ci si poteva allontanare da Venezia senza la reciproca
autorizzazione preventiva. Nessun nobiluomo poteva rifiutare l'ufficio assegnatogli, pena la perdita dei
diritti politici. Le cariche pubbliche disagevoli o di lontana destinazione davano luogo a compensi appena
dignitosi, invece quelle onorifiche (dette senatorie, erano le più importanti) non erano neppure retribuite
(anzi, comportavano notevoli oneri economici per le doverose spese di rappresentanza).
Si voleva che ogni magistrato restasse fermo al proprio posto, ascoltando con attenzione i propri pari e
ponderando bene le decisioni. Finalmente, rimasto solo con la propria coscienza, il patrizio veneto dove10
va aver presente - nel momento di deliberare - solo l'interesse pubblico. Il continuo ruotare del patriziato
da una carica all’altra creava una mentalità così elastica, da radicare in ognuno anche il punto di vista del
proprio interlocutore. La Giustizia si traduceva in rigore per limitare i più forti e in clemenza per sollevare
i più deboli.
I valori fondanti erano l’ONORE (vale a dire la stima di cui doveva godere il singolo e la famiglia), la
FEDE (che motivava il sacrificio per il bene comune), l’AMOR DI PATRIA (ossia il senso sacro della comunità,
che non c’entra con il nazionalismo, concetto materialista e idolatrico della destra liberale).
L’esperienza veneta dimostra che la compattezza della società e la solidarietà interclassista non si
reggono su leggi scritte (che pure hanno una loro importanza), ma su valori spirituali comuni, che devono
essere inculcati con l'educazione. Essi devono essere radicati nella coscienza dei consociati. Infatti,
solo nel caso in cui siano condivisi, i valori hanno efficacia, altrimenti restano lettera morta.
I VALORI SPIRITUALI NON SI DEVONO CONSIDERARE UNA "LIBERA" OPINIONE, PERCHE'
SONO SACRI !
SENZA DI ESSI NON V'E' FUTURO !
CHI NON E' D'ACCORDO, NON PUO' VIVERE IN UN CONSORZIO CIVILE !
Ci siamo dimenticati che un valore etico non è traducibile in termini di "diritti umani" (oggi tanto di
moda), ma rappresenta invece un dovere supremo e presuppone che tutti i consociati ad esso si inchinino,
senza anteporvi le proprie esigenze. Ma questo si giustifica solo se un'intera comunità si consacra a Dio,
meglio ancora, ad un solo Dio secondo i dettami di un'unica religione, che è per noi la Verità che ci ha
lasciato Gesù.
Non sarà inutile concludere quest’intervento con gli insegnamenti della nostra nobiltà. Ricordo che nel
Settecento il N.H. Vettor Sandi, all’interno dei suoi monumentali "Principj di Storia Civile" aveva svolto
una rassegna critica di tanti pensatori moderni, i vari Spinoza, Hobbes, Leibnitz, Cartesio, Rousseau, ecc.
allora considerati eretici, ma oggi decantati come grandi filosofi.
Dopo averli confutati uno ad uno, svolge una riflessione a parer mio illuminante intorno al fatto che
ognuno di questi filosofi perviene alle conclusioni più bizzarre: com'è, dunque, possibile avvicinarli alla
grandezza e alla coerenza del pensiero cristiano? «L’uno nega l’esistenza di Dio o la rende incerta - ebbe
a scrivere – uno è deista, ch’esclude la Provvidenza sulle cose umane; il naturalista combatte ambedue.
L’Elvezio dà all’uomo un’anima sostantivamente uguale a quella de’ bruti e lo spoglia di ogni libertà; il
Rousseau lo vuol libero e spirituale ma fa somigliante a bruti la di lui primitiva original condizione; altri
finiscono l’uomo tutto con la morte, ed altri lo dicono immortale; tra questi alcuni lo vogliono esente da
ogni pena nella vita futura, altri non così. V’ha chi schernisce le leggi della religione come ritrovati politici
o d’interesse. Alcuni fanno il mondo eterno senza principio, alcuni all’opposto chi creato da Dio,
chi dal caso, o dall’accozzamento accidentale di particelle eterne ed erranti. Da altri si dice introdotta
la religion dal timore, altri la fanno figlia della natura; chi la sostien necessaria alla conservazion degli
stati, chi ad essi perniciosa. Tanto diversi ed opposti vicendevolmente sono i sistemi di costoro». Possiamo
dire che con queste parole Vettor Sandi, come tanti altri nobili e lo stesso popolo, dimostrava di
aver davvero capito cosa stava venendo avanti. Noi oggi ce ne rendiamo conto?
Ancora un richiamo agli intellettuali del Settecento. Il N.H. Giacomo Nani, davanti al prorompere
nel 1756 della guerra dei sette anni tra Austria e Prussia, viene sollecitato dal fratello Bernardo a formulare
un dettagliato piano di difesa militare di Venezia da un'invasione straniera.
Per circa 40 anni egli continua ad aggiornare il lavoro, ma il nostro viene a mancare proprio prima di
poter prendere parte alle vicende del funesto avvento napoleonico. Riflettendo sui modi più efficaci per
salvare la Patria, così si espresse: «l'avere i Francesi, molto anticipatamente alla effettiva loro invasione,
disseminato massime e sparso libri diretti a indebolire tutti i principî di quella coesione reciproca che è
così necessaria a mantenere unita l'opera di tutti gli individui d'una stessa Nazione, mettono ogni sovrano
fuor di stato di potersi difendere da tali incursioni, perché egli trova il popolo suo reso dissenziente in
religione»; in un altro passo: «andando ora a esaminare li mezzi che sopra gli altri possono animare il
popolo e infiamarlo alla difesa, troviamo ... la religione odiata da' protestanti [cioè la cattolica]; d'animar
dunque il popolo alla difesa della medesima può esser facilmente ottenuto dalle voci dei sagri oratori
e ministri [cioè il nostro clero]».
Alludendo al liberalismo e alle nuove dottrine, concludeva: «non ci può essere piano militare che sia
acconcio a combattere una malattia puramente morale e politica». E le piaghe di questa malattia pos11
siamo toccare con mano ogni giorno: laddove la Serenissima costruiva da drio a ogni canton chiese e
templi, oggi questo sistema dissemina ovunque volgarità e degrado.
Fino all’estremo i Sapientissimi Progenitores Nostri (appellativo riservato agli Avi nelle Parti veneziane)
ribadirono che la Fede è il bene supremo. Nell’ultimo proclama che la Serenissima rivolse al popolo
il 14 maggio 1797, cioè ben due giorni dopo il colpo di stato dei municipalisti, il nostro amato Doge
N.H. Lodovigo Manin spiegava che le necessità dei tempi imponevano che il potere pubblico fosse rimesso
al popolo, nella forma di un governo provvisorio che avrebbe dovuto comunque continuare a conservare
la sacra devozione verso Dio assieme alla stessa vita dei cittadini veneti e al loro patrimonio: «Il
Serenissimo Principe fa sapere che avendo il Maggior Consiglio fondata la propria grandezza sulla felicità
della sua Nazione, e a quest’oggetto avendo costantemente diretto l’uso di quell’autorità della quale
non si è considerato che come il depositario, ha potuto conoscere che il cambiamento dei tempi e delle
circostanze, nonché l’esempio delle altre Nazioni esigevano che non restassero più a lungo ristrette nel
solo ordine Patrizio quelle facoltà che fin ora furono in lui concentrate». «Inalterabile però – continuava
– restar dovendo anche in questo Governo la Santa Cattolica Religione ereditata da nostri Maggiori,
ferma la sicurezza degl’Individui, preservate e tutelate le proprietà, viene con il presente invitata questa
diletta Popolazione alla dovuta obbedienza alle Leggi ed a continuare nella moderazione e nella quiete
che l’hanno sempre contraddistinta».
Le fattezze leonine dell'Evangelista Marco, il libro del Nuovo Testamento aperto con ardente fierezza,
l'incipit dell'iscrizione che risuona nella parola Pax, tutto nel nostro storico emblema nazionale riporta ad
un cattolicesimo militante. A tutto questo i nostri Avi hanno consacrato le loro vite, consegnandoci una
Civiltà che ci pone un solo problema: è al di sopra di noi.
e nel DNA
quel miracolo, ci spiega Rubini era reso possibile dai saldi fondamenti su cui si basava la nostra cultura, profondamente cristiana e nemica per principio di ogni conflitto al suo interno, che invitava tutti i Veneti ad esprimere il loro meglio ispirandosi ai principi evangelici.
Mercoledì 18 ottobre 2006 - h. 20,30
Chiesetta dell’Angelo – Bassano del Grappa (VI)
FONDAMENTI RELIGIOSI DELLO STATO VENETO
Conferenza di Edoardo Rubini
La prima avvertenza da fornire a chi volesse studiare la Veneta Serenissima Repubblica, è che si tratta
di un ordinamento di Ancien Régime. Che vuol dire?
Questo termine, un po' snob, indica che questo Stato riceveva la sovranità da Dio.
Tanti corollari - e di estremo significato - discendevano da questo presupposto: prima di tutto, l'origine
divina faceva sì che le leggi della Veneta Serenissima Repubblica (comunemente chiamate "Parti")
fossero ricavate da un preesistente Diritto Naturale.
Dopo aver studiato l’ordinamento moderno, come è capitato a me all’Università, chi si avvicinasse alle
fonti giuridiche antiche resterebbe stupito nel rinvenire al loro interno citazioni di Sacre Scritture; la
sensazione è quella di imbattersi in un corpo estraneo ed eccentrico rispetto alla funzione che il diritto deve
svolgere.
Il solo fatto di trovare un passo del Vangelo ci mette in una prospettiva del tutto diversa nel guardare
ad una questione dedotta in giudizio: ci pare così di andare al di fuori della “visione liberale” fondata sul
relativismo, per scontrarci contro una verità assoluta.
Anche nel diritto penale gli ordinamenti moderni misurano ogni cosa in termini relativi; eppure, in
questo campo - secondo il senso comune - chi commette un atto illecito (il reato) non lede soltanto un diritto,
ma infligge un colpo a quei principî della convivenza che noi tutti avvertiamo come sacri.
Ecco che, subito, emergono alcune differenze tra la Giustizia che si faceva ieri e quella di oggi: sotto
l’Ancien Régime si difendeva qualcosa di sacro, mentre oggi lo Stato svolge una sorta di attività burocratica.
Vorrei, a questo proposito, citare alcuni pensatori che più di altri hanno teorizzato il sistema oggi in
funzione. Il primo è Cesare Beccaria. Nessuno negherà che egli sia il padre del diritto penale moderno:
Beccaria, infatti, sviluppa il pensiero degli illuministi venuti prima di lui e lo trasfonde nel sapere giuspenalistico.
In particolare egli si rifà all’inglese Locke, che ha costruito un’idea di Stato basato in modo esclusivo
sulla legge, e ai francesi Montesquieu e Voltaire: il primo teorizza la divisione dei poteri, il secondo pontifica
sulla libertà d’opinione e addirittura scriverà un commento di sostegno a “Dei delitti e delle pene”.
Ebbene, Beccaria trasfonde in quest’ultima opera le idee di quei tre pensatori, ridisegnando lo scopo
stesso dell’ordinamento giuridico. Nascono con lui principî fondamentali, come la presunzione
d’innocenza dell’imputato e quello di tassatività, secondo cui nessuno può essere condannato ad una
pena che non sia già prevista dalla legge e per un fatto che la legge stessa non abbia già prescritto come
reato.
In generale, nella Serenissima la rilevanza di un atto giuridico veniva calcolato non solo sulla singola persona,
ma su tutta la catena generazionale ascendente e discendente. In pratica, il reato era una macchia
impressa sia sulla discendenza, sia sul buon nome degli antenati. Si pensava, insomma, che onori e castighi
influissero su una grande quantità di persone collegate al diretto interessato. Sui diritti prevaleva sem2
pre il senso del dovere. Può dirsi, senza paura, che l’individuo era lo strumento del bene comune, mentre
oggi accade l’esatto contrario: si pretende di mettere il bene comune al servizio dell’individuo.
«La responsabilità penale è personale» afferma l’articolo 27 dell’attuale Costituzione italiana, ma la
morale di un tempo insegnava ben altre cose.
Vediamo da questi pochi concetti come si ribalti la prospettiva seguita per secoli: prima del costituzionalismo
liberale la giustizia criminale serviva a tutelare i buoni e a costringere al rispetto del prossimo
chi avesse voluto porsi al di sopra di un certo ordine immutabile. Ora centro della legge penale diviene la
posizione dell’accusato, la preoccupazione è proteggere il colpevole dal castigo voluto dall’Autorità.
Così, si nega che il giudice possa seguire criteri diversi dalla legge scritta: per esempio noon è possibile
condannare chicchessia in forza della consuetudine o della volontà generale, espressa dallo Stato e dalla
società in forma diversa (es. le pronunce precedenti). Sparisce così la priorità che il governo e la giustizia
si erano posti fin a quel momento, che era il mantenimento di un certo ordine sociale, come riferimento
imprescindibile di un popolo. E con quel riferimento svanisce anche il Diritto Naturale, che il Cristianesimo
aveva sempre riconosciuto essere una creazione divina ANTERIORE alla volontà umana (sulla
scorta di un preciso codice morale).
Nello Stato liberale il concetto di Diritto Naturale perde di significato: il Parlamento diviene il decisore
esclusivo del giusto e dell’ingiusto secondo gli umori delle maggioranze. Per esempio, se per secoli si è
pensato che la famiglia fosse composta da un uomo e una donna predisposti alla procreazione, oggi - in
un ordinamento liberale - il legislatore può svegliarsi alla mattina e decidere che in realtà si possano sposare
anche due persone dello stesso sesso; domani – chissà - il matrimonio si potrebbe anche contrarre tra
più conviventi, oppure tra esseri umani ed animali. Se per secoli il suicidio è stato un reato, per Beccaria,
a metà ‘700, questo non ha più senso, tanto Dio non s’intriga nei fatti umani: l’uomo dispone liberamente,
tra gli altri beni, anche della vita, che è solo sua perché non la deve a nessun Creatore.
In coerenza con questi assunti, oggi si pensa che lo Stato potrebbe pure incoraggiare l’aspirante suicida
nei suoi disegni mortiferi, rendendo l’eutanasia un fatto normale. Se le religioni tradizionali avevano
indicato l’omicidio come peccato mortale, questo oggi non importa, così vediamo montare vere e proprie
campagne a favore dell’aborto: Dio non esiste, il corpo è mio, l’essere che concepisco è un affare che non
riguarda altri. Pochi riflettono sul fatto che dietro a rivendicazioni particolari (qui vengono p.e. in gioco
“i diritti delle donne”) s’introducono a poco a poco convinzioni e mentalità che sovvertono le regole supreme
dell’esistenza.
In questo soqquadro, il diritto prescinde da ogni valutazione morale: la legge si atteggia a una sorta di
“mercanteggiamento” - tra individui; c’è uno scontro di forze politiche, il giusto per la comunità sarebbe
ciò che viene deciso dal più forte. GIUSTIZIA=FORZA. VERITA’=SOMMATORIA DI OPINIONI.
Qui bisogna fare i complimenti a relativisti, materialisti, positivisti per questo bel sistema, in base al
quale 23 secoli di Civiltà occidentale sono cancellati in un colpo solo. Socrate, Platone, Aristotele avevano
a lungo spiegato la Verità in sé, ora invece i geni presi a modello dalla scuola pubblica spiegano che la
Verità non esiste più, ci sono tante verità quante la fantasia umana ne può creare.
Con l’800 la giustizia penale finisce di essere un fatto collettivo ed un problema coscienza morale. Il
sistema liberale la trasforma in un conto da regolare tra reo e principe (lo Stato). Lo stesso condannato va
sottratto il più possibile ad un senso di Giustizia morale (la quale, di per sé, non esiste più). Il sistema di
un tempo, che peraltro comportava minore invadenza delle leggi e attribuiva maggiori responsabilità in
capo ai giudici, permetteva forme di clemenza mirate, quindi concesse se meritate per davvero. Oggi, al
contrario, si osserva che chi è sottoposto all’azione penale viene spesso trasformato in un numero dai rigidi
meccanismi procedurali che dovevano tutelarlo, mentre invece lo espongono a veri abusi.
Detto per inciso, davanti un’attenta disamina storica lo stesso principio della divisione dei poteri si
dimostra un dogma imposto dalla scuola liberale. Andrebbe demistificato. Alla prova dei fatti è impensabile
erigere barriere insormontabili tra una funzione dello Stato e l’altra. Ancora di più, possiamo affermare
che il modello statuale della Serenissima dava ottima prova di buon funzionamento, accontentandosi
di distinguere l’esercizio di una funzione da un’altra: ciò significa che uno stesso organo poteva
svolgere - in momenti diversi - ora attività normativa (o amministrativa), ora giurisdizionale: ogni funzione,
però, era svolta con procedure specifiche.
Il nesso che legava questa pluralità di funzioni era dato dalla competenza per materia: per esempio il
Senato ora legiferava, ora amministrava, ora giudicava sulla navigazione ed altre materie definite, con il
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vantaggio di specializzarsi tecnicamente su di esse. Si faceva così riferimento a principî giuridici omogenei
e si evitavano discrasie con altri organi.
Il concetto di divisione, invece, porta con sé il pericolo di frammentare la visione “pubblica” dei problemi,
che più utilmente dovrebbe restare unitaria: una formale indipendenza di un pezzo di Stato
dall’altro porta alla frantumazione dell’idea stessa di bene comune (che non è affatto garantita dalla pretesa
egemonia della legge scritta).
Come dicevamo, la filosofia relativista trionfa sull’attuale sistema politico dopo le elaborazioni del tedesco
Hegel, per il quale la verità si ricava come prodotto di sintesi tra una tesi ed una antitesi. Il materialismo
storico segna la vittoria dell’uomo divinizzato sulla Natura e su Dio. In gioco troviamo solo forze
materiali; la politica non risponde più ad un dovere superiore, ma diviene il campo di battaglia dove tutto
è permesso, essendo deciso dai rapporti di forza tra i partiti. Il liberalismo formato Hegel, questa lettura
artificiosa ed artificiale della realtà, passerà di mano da questi all’ideatore del partito Comunista, Karl
Marx, per andare poi a formare anche l’ideologia fascista ed il pensiero dello stesso di Adolf Hitler in
Mein Kampf.
Questa digressione ci fa capire che la contrapposizione tra sistemi liberali e regimi totalitari, recitata
come un Rosario a scuola e dai mass media, è pura ideologia, fumo sugli occhi. Il liberalismo in sé è assolutismo:
una volta negato Dio, chi s’impadronisce del potere non trova più alcun limite all’esercizio e
alla legittimazione del proprio potere, come a metà ‘900 aveva osservato la intellettuale francese Simone
Weil.
L’idolatria praticata dai sistemi dittatoriali, quel culto della personalità che morto il tiranno appare in
tutta la sua pena e in tutto il suo ridicolo, è nota ed evidente. Meno nota è l’idolatria che predomina nei
sistemi cosiddetti liberali. D’altronde, da un paio di secoli, lo spettacolo della politica non muta rispetto
al quadretto offerto nella Parigi di fine ‘700 dal Comitato di Salute Pubblica e dalla Convenzione: sradicato
il Cristianesimo, si dice che d’ora innanzi comanderà la Virtù della Legge.
Pochi mesi dopo aver approvato la Dichiarazione dei Diritti del Cittadino e dell’Uomo - solennemente
sancendo la libertà di pensiero, di religione, di proprietà privata e di qualsiasi altra cosa - si delibera il genocidio
dei Vandeani perché questi maledetti… vogliono restare cattolici! L’indomani delle prediche
contro l’arbitrio dei giudici (che Montesquieu voleva trasformare in bocca delle leggi), il Comitato di
Salute Pubblica robespierrano spedisce alla ghigliottina gli avversari politici che lo criticano, in forza di
un semplice mandato d’arresto del governo ed un processo farsa, dove i giudici ignorano la legge, obbediscono
ciecamente e amoralmente a direttive politiche, fatalmente trasformandosi nella "bocca
dell’arbitrio”. Tutto ciò non accadeva nel tanto vituperato Ancien Régime d’ispirazione cristiana.
Perché vi ho spiegato come è nato il diritto moderno?
Per metterci tutti nella prospettiva dello sviluppo storico delle istituzioni di oggi, per capire che per
millenni la Giustizia si è basata su un certo ordine morale; poi, sulla punta delle baionette “democratiche”
di Napoleone, è arrivato l’Illuminismo ed è cambiato tutto. Si è scardinato un ordine persino precedente
all’Avvento di Gesù Cristo. Il Cristianesimo, infatti, aveva elevato e portato a perfezionamento - ma non
rivoluzionato - le concezioni più antiche che appartennero al mondo antico e classico.
Al contrario di quelli cristiani, gli ordinamenti liberali formano un diritto cosiddetto "positivo", vale a
dire posto per intero (positum) dal potere legislativo: in tal modo lo Stato moderno si eleva ad autorità
suprema, al di sopra persino del Padreterno.
I giuspositivisti adorano come un feticcio lo Stato da loro edificato, che il più delle volte è espressione
di poteri forti, conflittuali ed occulti. Vi dice qualcosa la frase “Repubblica una ed indivisibile”?
L’ho trovata riferita alla rivoluzionata Repubblica Francese nel Trattato di Campoformido (1797). Ma
come? – mi chiedo io: le truppe napoleoniche hanno appena terrorizzato l’Europa, hanno appena massacrato
e rubato più che potevano, il Generalissimo sta per mettere la firma su un Trattato con cui si annette
la terra d’altri e, con tutto questo, definisce la Francia “una e indivisibile”…
Si noti che gli Stati Cristiani nella loro storia millenaria avevano dato per scontati gli spostamenti di
confini (mutamenti politici che, in effetti, c'erano sempre stati e sempre ci saranno): i territori, un tempo
venivano conquistati, perduti, scambiati, addirittura talvolta acquistati con somme di denaro. Mai i sudditi
venivano fagocitati contro il loro consenso da “Stati Unici ed Indivisibili” con diritto di vita e di morte
su di loro: la gente viveva da sempre in piccoli ambiti territoriali, dotati di forte autonomia, basata sulla
tradizione locale. Si vede bene che il neonato Stato liberale si presenta subito come realizzazione di quel
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Leviatano di matrice hobbsiana: appena nasce a fine ‘700 mena stragi e reprime a più non posso, a furia
di guardie nazionali e polizia (segreta).
C’è da domandarsi di quale natura sia il possesso esercitato da “Repubblica una ed indivisibile”…
Guarda caso, la formuletta viene inserita nel 1947 anche all’interno dell’art. 5 della Costituzione Italiana.
L’Italia diviene per decreto “una e indivisibile”, benché abbia appena perduto vari territorî in seguito ad
una capitolazione senza onore in una guerra disastrosa: anzi in quel tempo non sa neppure che fine farà la
zona “A” (Trieste) e la zona “B” (l’Istria). “Una e indivisibile”: che vuol dire?
Si rifletta che lo Stato Veneto, come tutti quelli antichi, non nacque anticamente in forza di una Carta
scritta che pretendesse di modellare alla perfezione una comunità o un’organizzazione politica. Tale impostazione
poteva solo conseguire all’intento illuminista di cancellare la storia, “per far uscire l’uomo dalla
caverna” dell’oscurantismo (cattolico!).
La Repubblica Serenissima fu schietta ed immediata espressione di un popolo già formato da oltre un
millennio, avente una propria cultura ed una propria identità. Questa sostanza non necessita di proclamazioni:
i Veneti, proiettano l’immagine del loro Stato su un piano alto, sacro e metafisico: la Verità rivelata.
Ciò si deve al fatto che la sovranità discende loro da Dio.
San Marco protettore della Veneta Nazione è il perno su cui ruota la consapevolezza che il nostro popolo
ha di sé. Il patriziato veneziano che ne reggeva le sorti non era una fonte divinizzata di potere
umano, teocratica o autocratica, come accadrà per i Savoia nello Stato ottocentesco. Al contrario.
Qui abbiamo un'intera Nazione consacrata ad un Evangelista, uno dei quattro testimoni che annunciano
al mondo la salvezza in Cristo, grazie alla nascita, morte e Resurrezione del Salvatore, Figlio unigenito
di Dio.
Per l'odierno homo liberalis (nato con la Rivoluzione Francese), forte delle sue certezze ideologiche, il
fondamento religioso dell'identità nazionale è duro da digerire. Egli è stato persuaso da Rousseau che
l’appartenenza ad una comunità politica si fonda sui diritti umani. Eppure basterebbe riflettere sul fatto
che, dalla preistoria ad oggi, tutti i popoli antichi hanno ricondotto il centro della vita pubblica ad un'unica
divinità nazionale, riconosciuta e venerata dal popolo (e non certo creata dal potere politico). Si possono
richiamare Atena, dea nazionale degli Ateniesi, o Reitia, divinità degli antichi Veneti nei secoli del
paganesimo, ma faremmo torto a tante analoghe Civiltà, che avevano la stessa base spirituale e che qui
non possiamo ricordare.
Per i Veneti, quindi, la Fede Cattolica fu il centro propulsore della propria identità.
Altri potrebbero obiettare che, se più popoli si richiamano ad uno stesso Credo (in questo caso il Cristianesimo),
ciò offuscherebbe l’identità di ciascuno. Anche questo è un pregiudizio di chi non riflette:
occorre osservare che l'Annuncio Evangelico si propaga con lo spirito della Pentecoste in lingue diverse
ed è destinato a genti diverse, le quali non sono affatto tenute ad uniformarsi ad un modello astratto.
Anzi, la Fede Cattolica presuppone che ogni popolo debba mantenere l'identità e la libertà loro
proprie; ciò perché la conversione a Cristo non rivoluziona l'identità dei gruppi, ma ne esalta le specifiche
doti spirituali e morali.
I Veneti di oggi restano increduli davanti al fatto evidente (e dichiarato in ogni forma ufficiale) che a
legittimare l'esistenza dello Stato vi era la Fede. Questo appare in contrasto con il fatto che la religione
del nostro popolo era custodita da un centro di potere straniero, quale era Roma: non solo istituzione religiosa
(in quanto Chiesa Cattolica), ma anche istituzione politica (in quanto Stato Pontificio). Ma anche
questa contraddizione è solo apparente.
Viene ricordato come, talora, Roma abbia abusato della propria autorità spirituale, lanciando più volte
formidabili interdetti - cioè scomuniche generali - contro la Serenissima (e altri Stati), per questioni di
mera natura politica: l'esempio classico ci è fornito dall'espansione veneziana su territori che il Vaticano
riteneva cosa propria, come il Ferrarese: ne abbiamo uno di pesante emesso per esempio durante la guerra
contro la Lega di Cambrais.
Ancora, si ricordano i profondi contrasti insorti nel '600 tra Roma e Venezia, dopo la Riforma Cattolica.
In quel travagliato secolo, il Doge Leonardo Donà dalle Rose e il Consultore de Iure, il Padre servita
Paolo Sarpi, furono visti come titani che si opponevano alle intromissioni della Santa Sede in materia politica
e di giurisdizione. Roma disapprovava la politica veneziana in materia di eresia, rimproverava alla
città lagunare di limitarsi ad un’opera di contenimento delle forme più virulente di dissenso religioso, lasciando
che si stampasse una quantità di libri proibiti dall’Indice e condannando gli eretici più pericolosi
a pene miti.
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Poi, la crisi. Papa Borghese, Paolo V, pretendeva di farsi consegnare due religiosi condannati per reati
comuni: tale giurisdizione apparteneva però legalmente al giudice secolare, quindi lo Stato voleva punirli.
Non contento, Paolo V ingiungeva alla Serenissima di revocare le leggi che limitavano e regolavano la
mano morta, cioè l’accumulo sproporzionato in capo ai monasteri di proprietà immobiliari ottenute con
donazioni e lasciti testamentari; tendeva quindi a formarsi una proprietà talmente estesa che, restando inattiva,
provocava l’impoverimento delle aree agricole, quindi lo Stato cercava di rimettere queste risorse
nel circolo produttivo.
Inaudito che il Capo della Cristianità volesse sostituirsi ad un legittimo Stato, per di più cattolico, nel
modificare o abolire leggi; poiché il Veneto Governo non cedeva, veniva lanciato l’Interdetto, vale a dire
una scomunica collettiva con conseguente divieto al clero veneto di tenere Messa ed impartire sacramenti.
Ecco che la Repubblica formava una commissione d’esperti per resistere alle ingiunzioni papali, volendo
evitare scontri troppo duri: questa venne guidata dal Consultore in iure, fra Paolo Sarpi. Di qui una serie
di provvedimenti: il Senato Veneto vietò che fosse esposto al pubblico il breve pontificio con cui si inibivano
le sacre funzioni ed ordinava, invece, al clero locale di proseguire indisturbato nella vita religiosa di
sempre. Solo alcuni ordini religiosi s’attenevano alle direttive romane; il Senato decideva così di espellere
dallo Stato l’ordine riottoso dei Gesuiti, sul presupposto che tutti devono restare fedeli alla Patria prima
che ad altri poteri e che la Serenissima difende la Fede in ogni caso.
A ben vedere, si trattava solo di problemi politici: nessun contrasto con il Soglio Pontificio ha
mai intaccato la sfera dottrinale. L'osservanza veneta dell'ortodossia cattolica fu indiscussa. Sarpi
veniva definito un eretico da teologi e canonisti filo-curiali, ma a torto. Egli mise in discussione un solo
dogma, l’infallibilità delle pronunce papali, che in realtà Roma aveva creato a suo uso e consumo per difendere
interessi temporali e non l’osservanza della comune dottrina cattolica. L’infallibilità, infatti, appartiene
alla Chiesa nel suo complesso.
La contesa dell’interdetto terminava con la sostanziale vittoria di Venezia: dopo un anno terribile, durante
il quale il Soglio Pontificio fece di tutto per trascinare gli Asburgo in guerra contro i Veneti, intervenne
la Francia a mediare: l’interdetto veniva ritirato senza che alcuna legge veneziana fosse toccata,
mentre la città lagunare si limitava a consegnare i due religiosi condannati (concessione di scarso rilievo
politico, dato che la questione era solo di principio).
In generale, merita di essere approfondito il ruolo sociale della Chiesa Veneta.
I Veneti considerarono sempre lo Stato sovrano e la Chiesa locale come cose appartenenti a tutta la
comunità e vitali per essa. L'apparato statale veneziano fece sempre e solo quanto si aspettava questo suo
popolo, indomito e coraggioso.
Gli albori della Chiesa Veneta sono legati al Patriarcato metropolita di Aquileia, originario centro
d'irradiazione della predicazione evangelica, che dall'Alto Adriatico si propagò al comprensorio alpinopadano.
La Fede che accomunava i centri venetici a partire dal periodo tardo-antico non era, tuttavia, vissuta
in comunione con il Papa. I vescovi locali, come pure il Metropolita, non avevano accettato il Concilio
Costantipolitano II del 553, per le equivoche e brutali interferenze dell'imperatore Giustiniano.
All'inizio del 600 il Patriarca con tutto il popolo riparò a Grado per proteggersi dall'invasione longobarda
che investì anche Aquileia. Pur non dovendo fronteggiare particolari violenze, si decise per prudenza
di restare in quella sede (i Longobardi occuparono la Venetia di Terra separandola dall'antica regione
Venetia et Histria, sicché dal VII secolo la Venetia Maritima rafforzò la sua forma politica).
Più tardi il Patriarca residente a Grado (con i fedeli venetici) si riunì con la Chiesa Romana, perché si
era esaurito il nefasto influsso teologico dell’Impero Orientale, tuttavia i Cristiani soggetti al dominio
longobardo lo disconobbero ed elessero un proprio Vescovo. Il paradosso è che quando anche quest'ultimo
abbandonò lo scisma, egli continuò a rimanere in carica e ad atteggiarsi come il vero Patriarca avente
autorità sulla Venetia. Nascerà così il paradosso di avere due Patriarcati distanti una manciata di chilometri
ed in lotta tra loro; tuttavia, il Patriarcato di Grado resterà in ogni tempo la roccaforte della Chiesa
nazionale veneta e Venezia ne difenderà sempre con successo le prerogative presso il Soglio Pontificio,
che anzi darà man forte ai Veneti vedendo in loro fedelissimi osservanti della Dottrina.
Per altro verso, il rapporto tra Grado e Chiesa bizantina (tramite l’Esarcato ravennate) continuò ad essere
improntato all’indipendenza anche in epoche successive. L’autorità bizantina in fatto di religione
non fu mai riconosciuta dal clero veneto (fatto inimmaginabile se i tribuni e i primi dogi fossero stati fiduciari
dell’Esarca, assurdo sostenuto ancor oggi dalla storiografia ufficiale).
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Eloquenti i fatti conseguenti alla rivolta divampata in Italia e un po’ ovunque nel Mediterraneo contro
l’editto iconoclasta dell’Imperatore Leone III l’Isaurico. Egli nel 726 emanò le prime direttive con cui disponeva
di osservare il culto cristiano ma senza far uso di immagini sacre, ordinando anzi di distruggerle.
A Roma e a Ravenna i popoli cristiani (da sempre gelosi cultori dell’iconografia sacra) si sollevarono con
formidabili rivolte. Ne approfittarono i Longobardi per occupare l’Esarcato e la Pentapoli scacciandovi
tutti i funzionari imperiali. L’esarca Paolo nel 727 scappò precipitosamente da Ravenna in nave, riparando
verso la più vicina nazione neutrale: la Venetia.
Il governo veneto fu raggiunto da un’accorata lettera (indirizzata ufficialmente al Patriarca di Grado)
del Pontefice romano che temeva il predominio del principe Liutprando e sollecitava i Veneti ad intervenire,
prendendo le parti del deprecato Impero Bizantino, che pur responsabile della crisi in Italia, ora non
era più in grado d’intervenire. In breve la flotta veneta comandata dal Doge Orso si precipitò a Ravenna,
sconfisse i Longobardi, la liberò e reinsediò l’Esarca.
L’Esarca Paolo si era rifugiato in Laguna perché era l'unico luogo ove potesse ritenersi al sicuro. I
Venetici, da sempre liberi politicamente e religiosamente, lungi dal piegarsi all’editto imperiale avevano
infatti perseverato indisturbati nel culto delle immagini, né ebbero bisogno di rovesciare il governo, come
accadde nei ducati italici sotto il dominio bizantino, né avevano nessun motivo politico per contrastare
l’imperatore (anzi, lo soccorsero respingendo i Longobardi).
La Chiesa locale era formata per intero da Veneti. I ministri del culto erano eletti dal popolo, sicché
quelli erano i "loro" preti. I Vescovi erano nobiluomini, tutti estratti dal Patriziato veneziano, come pure -
è ovvio - il Patriarca. Per secoli furono anch’essi eletti dal popolo riunito in Arengo, ma a partire dal Rinascimento
vi provvide il Senato e venivano mandati a Roma solo per l'investitura formale.
Roma, dicevo, controllava solo la dottrina e, naturalmente, l'elezione degli organi di governo del Vaticano
(a nessuno, allora, veniva in mente di contestare la potestà temporale propria della Chiesa).
Ma quanto contava la Fede nella Repubblica dei Veneti? Vediamo un episodio di storia più antica.
Torniamo con il pensiero al 13 agosto 1311, quando moriva il Doge Pietro Gradenigo.
La situazione era drammatica: la Nazione era ancora agitata per le macchinazioni dei Tiepolo, si era
appena conclusa la costosissima guerra con Ferrara, non era stato tolto l'interdetto, né si erano ricomposti
i contrasti con Padova, i commerci erano fermi, a Zara si era avuto il rovescio del governo.
A "Pierazo" Gradenigo, ancora scomunicato a causa del primo Interdetto, furono negati i funerali di
Stato ed il suo corpo fu deposto nella chiesa di S. Cipriano a Murano, in una tomba senza iscrizioni.
Riunitosi il Maggior Consiglio, i suffragi caddero sul N.H. Stefano Giustinian. Ma l'illustre senatore,
che aveva sostenuto tante ambascerie, si sentiva chiamato ad un incarico ancora più importante: prendeva
commiato dai suoi pari e si faceva monaco nell'abbazia di San Giorgio Maggiore. Tutto da rifare.
Di nuovo i patrizi si cimentavano con l'intricato sistema elettivo del Doge. I 41 elettori avevano appena
assistito alla Messa nella stanza del Senato e giurato sul messale il rispetto delle procedure. Neanche
lo Spirito Santo sembrava, però, sciogliere le loro incertezze e alcuni di loro gironzolavano indecisi
per la stanza del palazzo. Affacciatisi alla finestra videro che fuori, davanti al palazzo, stava passando il
N.H. Marin Zorzi seguito da un servo con un gran sacco sulle spalle. I patrizi si chiesero dove stesse andando
in quelle circostanze. Il gentiluomo era diretto al pianterreno, dove erano collocate le prigioni, e
nel sacco c'era roba da mangiare per portare conforto ai carcerati come egli era solito fare, avendo fama di
uomo misericordioso ed in nomina di santo.
A tutti parve che non potesse capitare maggior fortuna che avere una persona di tale levatura al vertice
dello Stato; fu così che Marin Zorzi divenne 50° Doge della Serenissima. Morì undici mesi dopo. Ma
diamo un'occhiata al suo testamento: impegnava gli esecutori testamentari a costruire nei pressi della
chiesa e del monastero di San Domenico (da lui stesso fondati) un asilo per bambini poveri o abbandonati
e provvedeva ad ogni necessità dell'istituto con un lascito.
Questa disamina preliminare è necessaria per far subito chiarezza su un punto preciso: assieme all'amor
di Patria, la Fede era la base di tutto, anzi le due cose coincidevano.
Le due fonti del potere spirituale e temporale, Chiesa e Stato, erano il baluardo di un ordine sociale
fondato su principî superiori alla dimensione umana. Chiesa e Stato erano entrambe fonti autoritative
di origine divina. Ognuna operava nel proprio autonomo ambito, per formare un inscindibile tutt'uno
assieme al popolo.
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Nell'Enciclica Libertas il Pontefice Leone XIII accosta l'unione tra Chiesa e Stato all'immagine della
commistione di anima e corpo, di cui si compongono gli esseri umani: la loro separazione darebbe senz'altro
luogo al decesso dell'organismo vivente, egli dice.
A quei tempi il popolo era il vero protagonista della storia: il suo centro esistenziale era la Fede. La
sua identità era data da quanto la Tradizione trasmetteva di generazione in generazione. Schematizzando,
possiamo affermare che era lo Stato ad adeguarsi al popolo, non il popolo al modello di Stato, come avviene
in costanza di leggi rivoluzionarie, come dicevo prima.
Oggi, infatti, in tutti gli Stati moderni vigono Costituzioni che ricalcano più o meno pedisseque quella
tanto conclamata Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo, divinizzata con i fasti parigini del 1789.
Con essa è mutata la natura del potere politico: lo Stato ha perso il suo ruolo di custode della tradizione
culturale a difesa del popolo, per diventare, invece, il creatore ideologico di tutta la realtà.
Tutto è finalizzato a forgiare l'Uomo Nuovo, le leopardiane magnifiche sorti e progressive, la Società perfetta
(come abbiamo constatato nei successivi totalitarismi comunisti e fascisti, che del liberalismo sono
figli illegittimi, ma del tutto naturali).
Vi sono aspetti fondamentali della storia veneta che rimangono ancora in ombra nella coscienza generale
e che pure danno il senso di un sistema di vita (prima ancora che politico) che si basava davvero
sul consenso e sulla partecipazione di tutta la comunità, tanto che potremmo definire la nostra Repubblica
"democratica" in senso autentico.
In altre mie conferenze ho sottolineato come lo Stato Veneto avesse una struttura federale, cioè era
composto da città e terre che fondamentalmente si amministravano da sé con enormi poteri di autorganizzazione
un po’ in tutti i campi. Persino il sistema delle Arti rimetteva la gestione delle varie attività commerciali
e produttive in capo alle singole organizzazioni di lavoratori, pur sotto la sorveglianza pubblica.
Ma qui dobbiamo soffermarci sui principî spirituali che reggevano la Repubblica di San Marco. Il
rapporto tra potere temporale e spirituale è stato oggi liquidato dallo Stato liberale con la formuletta “libera
Chiesa in libero Stato”, nel senso che lo Stato sarebbe la vera autorità pubblica, mentre la Chiesa una
sorta di istituzione privata, parificata alle mille altre sette religiose che si reggono sui culti più inauditi.
Dietro un discorso di apparente libertà e tolleranza si cela la più terribile violenza che il potere politico
poteva consumare ai danni del popolo. Se è vero che la Fede è la base valoriale su cui si basa l’identità di
una Nazione, allora lo Stato giacobino che oggi chiamiamo “liberal-democratico” è quanto di meno rispettoso
della libertà si possa pensare.
Esso esprime in modo spietato quel capovolgimento nel concepire il mondo che si è avuto con la Rivoluzione:
un tempo Dio era visto come il Creatore dell’uomo e fungeva da fattore motivante la vita su
questa Terra. La vita di ciascuno, infatti, era subordinata al senso del dovere, a quei grandi riferimenti
come la Patria e la famiglia, cui un uomo doveva sacrificare tutto se stesso.
Con l’avvento del sistema liberal-rivoluzionario, pressoché tutte le categorie concettuali sono state
sconvolte e pervertite dal loro significato vero ed originale. La Ragione per secoli si è nutrita di devozione
in Dio, riconosciuto come l’origine di ogni bene. Gli Illuministi hanno contrabbandato la ragione come
il baluardo del materialismo e del relativismo. Ragionevole, da allora, è ogni cosa riproducibile in laboratorio,
in omaggio ad uno scientismo che pretende di limitare il vero agli esperimenti.
La Natura nella Civiltà cristiana è la meraviglia della Creazione e l’uomo vi è inserito in una forma
armoniosa al suo vertice, come essere morale e dotato della possibilità di riconoscere Dio. Il pensiero
moderno capovolge questa prospettiva: la natura è ora matrigna, cioè costringe ed opprime l’uomo, oppure
è vista come un desiderabile stato di amoralità al quale l’uomo è chiamato a conformarsi, abbandonando
il Trascendente.
Virtù era la potenza umana che l’uomo attingeva da Dio, in quanto capace di aderire ad un ideale superiore;
con Rousseau e Robespierre la virtù diviene l’apogeo dell’esaltazione umana.
I Patrioti durante la Rivoluzione sarebbero la “Guardia Nazionale”, la soldataglia che va a menar
strage in Vandea, in Bretagna e contro altre città francesi che non accettano il nuovo ordine: i contadini e
i nobili cristiani che difendono le loro case (cioè i veri Patrioti) vengono ribattezzati “banditi”; così come
le genti del Sud Italia, che 60 anni dopo passeranno alla storia con il nome di “briganti”per essersi opposte
alla conquista anticristiana di garibaldini e savoiardi sulla loro terra (anche i Veneti di oggi, se s'indignano
contro lo stravolgimento del loro territorio cagionato da immigrazione selvaggia e sradicamento
culturale, sono chiamati “razzisti”).
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Libertà un tempo era quella in Dio, cioè la facoltà di scegliere il Bene: si è oggi dimenticato che la libertà
è un mezzo, non un fine. Oggi abbiamo la Libertà è “da Dio”. Libero sarebbe chi sente
un’orgogliosa autosufficienza da ogni principio (finendo inevitabilmente preda del male).
Oggi l’uomo vede il fine dell’esistenza nei propri interessi materiali. Dio è divenuto la proiezione di
noi stessi. In una parola, Dio è oggi inteso come una creazione umana. In questo senso, la cosiddetta libertà
religiosa ha annullato la Fede nei più. Nelle concezioni liberal-massoniche Dio è divenuto solo
un’opinione!
Se l’uomo è libero di pensare e vivere ogni cosa a modo suo, ci dicono, perché autocastrarsi, perché
rovinare la propria libertà ipotizzando un noioso e inutile essere superiore che ci giudicherebbe? Va da sé
che entrando nella mentalità comune, l’ateo è furbo, il credente è un povero sciocco.
In uno Stato liberale, se vogliamo dirla tutta, Bene e Male si sono invertiti. Esistono i regolamenti di
Stato decisi dai Parlamenti, che dicono cosa si può fare e cosa non si può fare. La morale è quindi solo
un’opinione. La religione una droga, come diceva quel signore scapigliato e con la barba arruffata. La
Chiesa, infine, è un’associazione privata, che può dire ciò che vuole, proprio come può dire ciò che vuole
chi professasse una qualsiasi depravazione.
Questo è il mondo che abbiamo intorno, Signori! E questo, secondo il pensiero comune, non si può
cambiare. “Non si può tornare indietro”: quante volte avremmo sentito questa frase?
Però io chiedo: “Chi l’ha detto?”
Qui ci viene incontro l’insegnamento della Veneta Repubblica. Il sistema che i Veneti avevano adottato
era giusto ed è tuttora all’avanguardia, soprattutto se confrontato al caos odierno.
In base a quanto abbiamo prima spiegato, possiamo ora formulare una precisa distinzione.
La Serenissima aveva praticato la LAICITA’ dello Stato.
Lo Stato moderno, per es. la Repubblica Italiana, pratica un sistema ben diverso: il LAICISMO.
Dov’è la differenza?
Praticamente siamo agli antipodi.
Lo Stato laico, come lo intendeva la Serenissima, presupponeva una DISTINZIONE tra la sfera gestionale
della politica e quella della religione. Nello Stato Cristiano esisteva la Divina Maestà, che era
governata dalla Chiesa, mentre lo Stato politico (Maestà Temporale) non era retto da un’autorità religiosa.
Ancor oggi si legge in certe deliberazioni dello Stato Marciano, la premessa “Cazadi i papalisti”.
Che vuol dire? Bisogna sapere che nei Consigli si teneva nota di tutte le famiglie aristocratiche che
avevano ricevuto privilegi ecclesiastici o avevano comunque rapporti con la Curia Romana. Tutti i nobili
membri di questa categoria, quando le deliberazioni investivano gli interessi della Chiesa, erano chiamati
per nome: allora si dovevano alzare per essere “cazadi de capelo”, cioè mandati ad attendere in un’altra
stanzetta per rientrare dopo che le relative operazioni di voto fossero terminate.
Questa esclusione testimonia quanta attenzione fosse posta a prevenire il conflitto d’interesse; ma vi
erano anche altre più importanti manifestazioni del principio di laicità. Mai si vedrà la Repubblica disporre
norme su affari spirituali di competenza della Chiesa, che pure riguardavano rapporti civili, come
ad esempio il matrimonio (i relativi provvedimenti avevano carattere esecutivo: per esempio, si disponevano
misure contro chi avesse violato le norme di diritto ecclesiastico e provocato disordine sociale). Insomma,
la laicità dello Stato Veneto garantiva tutti. Questo non vuol dire che lo Stato fosse indifferente
alla religione, posta invece come fondamento dello Stato stesso, discendendo la sovranità da Dio. Nessuno
avrebbe potuto governare, di conseguenza, se non fosse stato di Fede cattolica (come lo era il popolo).
Il LAICISMO moderno è tutt’altra cosa. Vuol dire che lo Stato traccia una SEPARAZIONE NETTA
con i valori etico-religiosi, prescindendo da un preesistente ordine morale, isolandosi da qualsiasi scrupolo
che discenda dalla coscienza. Sono spalancate le porte dell’arbitrio totale. Senza un retroterra, un patrimonio
nazionale di Fede e di Tradizione, lo Stato (soprattutto chi lo controlla) ha mano libera nel fare e
disfare a suo piacimento. La sovranità nel sistema attuale discende da un popolo privo di quell’identità
profonda data dalla spiritualità; piuttosto l’identità nazionale è definita da segni materiali ed esteriori
(simboli, bandiere, uniformi, eserciti, squadre sportive, o anche la lingua).
Questo Stato liberale laicista proietta la sua pretesa neutralità (un assurdo senso dell’obiettività che in
realtà è il non essere, che presume una superiorità rispetto ad ogni orientamento valoriale) in un’ideologia
che poi, agli effetti pratici, si scopre non essere affatto neutra: l’ideologia liberale. Essa è stata partorita
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in ambienti iniziatici ed occulti, soprattutto tra ‘600 e ‘700 e - volendo grattare un poco sotto quella vernice
di ipocrisia di cui si è sempre ammantata - diciamo pure che sin dalla sua genesi fu ideata allo scopo
di sradicare il Cristianesimo.
Ha raggiunto questo scopo? A prescindere da come ognuno la pensi, credo che possiamo tutti concordare
che sì, il liberalismo ha raggiunto il suo scopo. Oggi viviamo in una società ove Cristo non regna.
L’uomo si è “liberato” (tra virgolette) da Dio, anche se sempre più gente comincia a dubitare sulla
bontà di questo affare.
Non sarei d’accordo che non si possa tornare indietro. Il modello razionale e coerente di società era
quello che avevamo con il Veneto Governo: la società, infatti, aveva una solidissima base spirituale, morale
ed identitaria. La sana laicità della Serenissima non obbligava, né violentava nessuno. Diceva solamente:
questi sono i Veneti, questa è la nostra Fede, questa è la nostra cultura nazionale. A chi non è
d’accordo daremo il suo spazio, ma non potrà pretendere che noi ci annulliamo davanti a lui, perché viene
sulla nostra terra e la nostra identità non gli piace. Scusate, ma dal momento che un popolo non è padrone
in casa sua, quale libertà è possibile?
La Fede non è folklorismo, è la spina dorsale di una società: senza la prima la seconda si spegne un
po’ alla volta, fino ad assumere le fattezze di un mollusco informe. La religione dei Nostri Padri, difesa
con lacrime e sangue, può - secondo voi - essere messa sullo stesso piano di quella all’ultima moda
U.S.A., come Scientology, o inventata ispirandosi ad improbabili stregonerie celtiche, come la Wikka? E
che dire del satanismo, anche questa è da ricomprendere nel pret a porter delle libertà borghesi?
Certo, a chi guarda solo al proprio comodo, apparirà oziosa la questione di quale sarà il mondo in cui
vivranno i nostri figli. Ma cominciamo a dire la verità. Basta, per favore, con le menzogne di Stato, con
questa scuola pubblica che genera presunzione, che dipinge il Medioevo Cristiano come un inferno e che
mostra la Chiesa intenta solo a bruciare gli eretici.
Secondo Voltaire e compagnia, i valori della tradizione rappresentavano il modo con cui le classi elevate
avrebbero soggiogato il popolo. Io con le mie ricerche ho dimostrato l'esatto contrario: nel mondo
antico la visione religiosa era tipica del popolo, retaggio della Civiltà contadina, d’ascendenza preistorica.
La nobiltà vi si adeguava, la elevava al massimo livello, la difendeva con pari fervore. Le leggi non costituivano
un feticcio, come oggi sono trattate all’Università.
Le leggi della nostra Santa Repubblica non erano un valore in sé, ma solo il presidio di una precisa
visione del mondo: contava quella e basta.
Quale sia il vero sentire del popolo lo si vede ancor oggi: quando nelle aule scolastiche qualcuno mette
le mani sul Crocefisso, non sono mai i pubblici poteri a rivoltarsi. Non gli insegnanti di Stato, non i
partiti politici (tutti per definizione liberali), non il Ministero. No, signori. L’apparato è il fedele esecutore
dei dettami giacobini: via la Chiesa Cattolica, poi via il Cristianesimo, infine via Gesù Cristo.
Sono invece le mamme a disperarsi per le minacce portate alla Croce, è il popolo, la gente di paese,
che vuole salvare le Sacre Immagini. Il sistema politico illuminista, partorito dalla Rivoluzione Francese
e disseminato in ogni dove dalle conquiste napoleoniche, è nato storpio; si fonda sullo scontro tra partiti
ebbri di retorica e di ideologia, ma sprovvisti della benché minima nozione di bene comune.
La Serenissima, invece, è rimasta stabile nei secoli perché riconosceva che il vero Bene discende da
Dio. Difatti, vigeva il divieto assoluto di formare non dico partiti, ma una qualsiasi intesa elettorale, cartello
politico, o alleanza prefissata. In seno al Maggior Consiglio, al termine delle elezioni, non ci si poteva
neppure complimentare con l'eletto per l'acquisto della carica.
Per l'elezione del Doge era vietato ai nobili persino di riunirsi in casa di qualcuno per discutere, al
massimo era consentito accordarsi tra un gruppetto di parenti stretti (a fronte di un Consiglio nel quale votavano
un migliaio e mezzo circa di elettori). I senatori dovevano mantenere il più assoluto riserbo sull'attività
istituzionale, non potevano esternare commenti neppure in casa propria, neanche facendo cenni
con il viso. Il Doge ed il Minor Consiglio non potevano leggere la corrispondenza, né ricevere ospiti
stranieri, se non tutti insieme durante le sedute, né ci si poteva allontanare da Venezia senza la reciproca
autorizzazione preventiva. Nessun nobiluomo poteva rifiutare l'ufficio assegnatogli, pena la perdita dei
diritti politici. Le cariche pubbliche disagevoli o di lontana destinazione davano luogo a compensi appena
dignitosi, invece quelle onorifiche (dette senatorie, erano le più importanti) non erano neppure retribuite
(anzi, comportavano notevoli oneri economici per le doverose spese di rappresentanza).
Si voleva che ogni magistrato restasse fermo al proprio posto, ascoltando con attenzione i propri pari e
ponderando bene le decisioni. Finalmente, rimasto solo con la propria coscienza, il patrizio veneto dove10
va aver presente - nel momento di deliberare - solo l'interesse pubblico. Il continuo ruotare del patriziato
da una carica all’altra creava una mentalità così elastica, da radicare in ognuno anche il punto di vista del
proprio interlocutore. La Giustizia si traduceva in rigore per limitare i più forti e in clemenza per sollevare
i più deboli.
I valori fondanti erano l’ONORE (vale a dire la stima di cui doveva godere il singolo e la famiglia), la
FEDE (che motivava il sacrificio per il bene comune), l’AMOR DI PATRIA (ossia il senso sacro della comunità,
che non c’entra con il nazionalismo, concetto materialista e idolatrico della destra liberale).
L’esperienza veneta dimostra che la compattezza della società e la solidarietà interclassista non si
reggono su leggi scritte (che pure hanno una loro importanza), ma su valori spirituali comuni, che devono
essere inculcati con l'educazione. Essi devono essere radicati nella coscienza dei consociati. Infatti,
solo nel caso in cui siano condivisi, i valori hanno efficacia, altrimenti restano lettera morta.
I VALORI SPIRITUALI NON SI DEVONO CONSIDERARE UNA "LIBERA" OPINIONE, PERCHE'
SONO SACRI !
SENZA DI ESSI NON V'E' FUTURO !
CHI NON E' D'ACCORDO, NON PUO' VIVERE IN UN CONSORZIO CIVILE !
Ci siamo dimenticati che un valore etico non è traducibile in termini di "diritti umani" (oggi tanto di
moda), ma rappresenta invece un dovere supremo e presuppone che tutti i consociati ad esso si inchinino,
senza anteporvi le proprie esigenze. Ma questo si giustifica solo se un'intera comunità si consacra a Dio,
meglio ancora, ad un solo Dio secondo i dettami di un'unica religione, che è per noi la Verità che ci ha
lasciato Gesù.
Non sarà inutile concludere quest’intervento con gli insegnamenti della nostra nobiltà. Ricordo che nel
Settecento il N.H. Vettor Sandi, all’interno dei suoi monumentali "Principj di Storia Civile" aveva svolto
una rassegna critica di tanti pensatori moderni, i vari Spinoza, Hobbes, Leibnitz, Cartesio, Rousseau, ecc.
allora considerati eretici, ma oggi decantati come grandi filosofi.
Dopo averli confutati uno ad uno, svolge una riflessione a parer mio illuminante intorno al fatto che
ognuno di questi filosofi perviene alle conclusioni più bizzarre: com'è, dunque, possibile avvicinarli alla
grandezza e alla coerenza del pensiero cristiano? «L’uno nega l’esistenza di Dio o la rende incerta - ebbe
a scrivere – uno è deista, ch’esclude la Provvidenza sulle cose umane; il naturalista combatte ambedue.
L’Elvezio dà all’uomo un’anima sostantivamente uguale a quella de’ bruti e lo spoglia di ogni libertà; il
Rousseau lo vuol libero e spirituale ma fa somigliante a bruti la di lui primitiva original condizione; altri
finiscono l’uomo tutto con la morte, ed altri lo dicono immortale; tra questi alcuni lo vogliono esente da
ogni pena nella vita futura, altri non così. V’ha chi schernisce le leggi della religione come ritrovati politici
o d’interesse. Alcuni fanno il mondo eterno senza principio, alcuni all’opposto chi creato da Dio,
chi dal caso, o dall’accozzamento accidentale di particelle eterne ed erranti. Da altri si dice introdotta
la religion dal timore, altri la fanno figlia della natura; chi la sostien necessaria alla conservazion degli
stati, chi ad essi perniciosa. Tanto diversi ed opposti vicendevolmente sono i sistemi di costoro». Possiamo
dire che con queste parole Vettor Sandi, come tanti altri nobili e lo stesso popolo, dimostrava di
aver davvero capito cosa stava venendo avanti. Noi oggi ce ne rendiamo conto?
Ancora un richiamo agli intellettuali del Settecento. Il N.H. Giacomo Nani, davanti al prorompere
nel 1756 della guerra dei sette anni tra Austria e Prussia, viene sollecitato dal fratello Bernardo a formulare
un dettagliato piano di difesa militare di Venezia da un'invasione straniera.
Per circa 40 anni egli continua ad aggiornare il lavoro, ma il nostro viene a mancare proprio prima di
poter prendere parte alle vicende del funesto avvento napoleonico. Riflettendo sui modi più efficaci per
salvare la Patria, così si espresse: «l'avere i Francesi, molto anticipatamente alla effettiva loro invasione,
disseminato massime e sparso libri diretti a indebolire tutti i principî di quella coesione reciproca che è
così necessaria a mantenere unita l'opera di tutti gli individui d'una stessa Nazione, mettono ogni sovrano
fuor di stato di potersi difendere da tali incursioni, perché egli trova il popolo suo reso dissenziente in
religione»; in un altro passo: «andando ora a esaminare li mezzi che sopra gli altri possono animare il
popolo e infiamarlo alla difesa, troviamo ... la religione odiata da' protestanti [cioè la cattolica]; d'animar
dunque il popolo alla difesa della medesima può esser facilmente ottenuto dalle voci dei sagri oratori
e ministri [cioè il nostro clero]».
Alludendo al liberalismo e alle nuove dottrine, concludeva: «non ci può essere piano militare che sia
acconcio a combattere una malattia puramente morale e politica». E le piaghe di questa malattia pos11
siamo toccare con mano ogni giorno: laddove la Serenissima costruiva da drio a ogni canton chiese e
templi, oggi questo sistema dissemina ovunque volgarità e degrado.
Fino all’estremo i Sapientissimi Progenitores Nostri (appellativo riservato agli Avi nelle Parti veneziane)
ribadirono che la Fede è il bene supremo. Nell’ultimo proclama che la Serenissima rivolse al popolo
il 14 maggio 1797, cioè ben due giorni dopo il colpo di stato dei municipalisti, il nostro amato Doge
N.H. Lodovigo Manin spiegava che le necessità dei tempi imponevano che il potere pubblico fosse rimesso
al popolo, nella forma di un governo provvisorio che avrebbe dovuto comunque continuare a conservare
la sacra devozione verso Dio assieme alla stessa vita dei cittadini veneti e al loro patrimonio: «Il
Serenissimo Principe fa sapere che avendo il Maggior Consiglio fondata la propria grandezza sulla felicità
della sua Nazione, e a quest’oggetto avendo costantemente diretto l’uso di quell’autorità della quale
non si è considerato che come il depositario, ha potuto conoscere che il cambiamento dei tempi e delle
circostanze, nonché l’esempio delle altre Nazioni esigevano che non restassero più a lungo ristrette nel
solo ordine Patrizio quelle facoltà che fin ora furono in lui concentrate». «Inalterabile però – continuava
– restar dovendo anche in questo Governo la Santa Cattolica Religione ereditata da nostri Maggiori,
ferma la sicurezza degl’Individui, preservate e tutelate le proprietà, viene con il presente invitata questa
diletta Popolazione alla dovuta obbedienza alle Leggi ed a continuare nella moderazione e nella quiete
che l’hanno sempre contraddistinta».
Le fattezze leonine dell'Evangelista Marco, il libro del Nuovo Testamento aperto con ardente fierezza,
l'incipit dell'iscrizione che risuona nella parola Pax, tutto nel nostro storico emblema nazionale riporta ad
un cattolicesimo militante. A tutto questo i nostri Avi hanno consacrato le loro vite, consegnandoci una
Civiltà che ci pone un solo problema: è al di sopra di noi.
e nel DNA
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